Urbanistica INFORMAZIONI

L’invenzione di Liverpool

Liverpool a partire dalla Capitale Europea della Cultura del 2008 (da qui in poi abbreviata con l’acronimo ECoC), ha presentato ai media e al mondo le proprie strategie di rigenerazione urbana, arrivando a rappresentare, nell’immaginario internazionale, una best practice d’eccezionale rilievo. Questo successo è dovuto principalmente a due fattori:
- il primo fattore è legato al successo della strategia di marketing dell’evento, che, è stata particolarmente semplice e immediata, ri-posizionando la città sulle mappe del turismo mondiale;
- il secondo fattore è legato al successo della strategia di branding del processo stesso, a lungo presentato come un evento zero-architecture (GARCÌA 2010) che privilegiava la conservazione e la valorizzazione della cultura dei luoghi.
Il primo punto, in effetti, consiste in una riduzione comunicativa dell’immagine della città, artificialmente fatta coincidere con una selezione di elementi trasformati in etichette che circolano nei media: il luogo della città è il centro; il suo tempo il futuro; i suoi abitanti sono per la maggior parte non-poveri, non-vecchi, non-appartenenti a minoranze, non-infelici.
Il secondo punto è il più critico, poiché pur non essendosi costruito per l’evento, l’evento è specchio di un processo esteso di rigenerazione fisica, valutato nel lungo termine. Al di là dell’evento, il brand di Liverpool città competitiva e innovativa continua a guidare le scelte politiche della città. Il risultato più rischioso di questo racconto selettivo e orientato, non è stato il veicolare immagini irreali o retoriche falsanti; il vero rischio è consistito nel conseguente prodursi di azioni e politiche selettive, distorcenti significati e contenuti esistenti, nella ricerca di un’adesione sempre più fedele all’immagine di città accuratamente prestabilita.
La trasformazione di Liverpool è iniziata, infatti, prima dell’ECoC, attraverso la costruzione di una nuova immagine forte e competitiva. In particolare, si è lavorato sull’immaginario simbolico della città fordista: le industrie dismesse e la macchina portuale abbandonata, i luoghi centrali della city of production trasformatisi in city of consumption e cultural cluster. Attraverso partnership pubblico-private, si sono attuati progetti di sostituzione di interi tessuti del vecchio centro urbano; l’ECoC ha aiutato a diffondere una nuova entertainment e leisure economy.
A partire dagli anni Ottanta, quindi, Liverpool inizia a trasformarsi, inseguendo un’immagine che, pur partendo dai luoghi emblematici della cultura industriale, sottende una scissione dalla storia recente della città stessa, il cui paesaggio urbano di magazzini di mattoni rossi e terraced housing, viene gradualmente soppiantato da un nuovo centro, caratterizzato da funzioni per il tempo libero, shopping centre e attrezzature collettive. La città viene ‘customizzata’ da un nuovo culto dell’iper-estetico, con stilemi dichiaratamente post-moderni: l’emblema più significativo è il nuovo cuore della città, Liverpool 1, propagandato come il più grande centro commerciale d’Europa: di fatto un intero quartiere che nasce in sostituzione del tessuto urbano antico, depauperando i significati pregressi in ragione dell’inseguimento di un ideale consumistico accessibile a tutti.
La rigenerazione della città parte, secondo un impianto concentrico, in ragione degli specifici caratteri morfologici e insediativi della città, dal cuore delle aree industriali dismesse sul waterfront. In particolare, nel 2004 il waterfront viene designato dall’Unesco World Heritage Site, a segnare il recupero del rapporto con il fronte costiero, a lungo negato dalla presenza della macchina portuale. Il rilancio passa attraverso una serie di flagship projects (tra cui il più noto è la riconversione dell’Albert Dock), seguiti da una più sistematica riqualificazione dello spazio pubblico e dalla realizzazione (tuttora in corso) di un moderno centro uffici, per esaltare la nuova economia fondata su finanza e high tech.
Dopo il waterfront, la rigenerazione interessa le aree retro-portuali, i vecchi quartieri di magazzini rilanciati come altrettanti creative cluster. In questi quartieri a partire dagli anni Settanta si erano insediate creative industries negli ex capannoni industriali. Pur attestandosi su queste energie presenti nell’area e ricucendo morfologicamente un rapporto tra le ex-aree industriali, gli ordinati quartieri ottocenteschi e le aree verdi del campus universitario, si impoverisce di fatto l’orizzonte esistente, sostituito gradualmente dai capisaldi della consumption city (catene internazionali di negozi e ristoranti), con il conseguente effetto di provocare la dislocazione di quelle stesse energie spontanee che si intendeva programmaticamente valorizzare.
Un effetto simile di dislocazione dei valori preesistenti, si è, infine, prodotto anche nei vecchi quartieri della working class, gradualmente demoliti e ricostruiti secondo tipologie edilizie estranee alla tradizione inglese. Qui in maniera più aggressiva che nel centro, anche se seguendo la stessa retorica di immagini selettive, si sono distorti i valori presenti, in favore di modelli di sviluppo middle class.
Il crollo del mercato immobiliare e la forte decrescita demografica nella città di Liverpool avevano, infatti, condotto negli ultimi decenni all’abbandono di molte abitazioni: il programma HMR (2003-2011), Housing Market Renewal, ha cercato di rialzare i valori immobiliari e, per affrontare più in generale la questione delle condizioni sociali di vita delle comunità interessate, ha propagandato la costruzione di mixed neighbourhood, con l’attrazione di nuove fasce di popolazione in case più dignitose.
Ma la rigenerazione di queste zone è stata portata avanti attraverso scontri aperti con le comunità residenti, non in grado di re-insediarsi nei nuovi costosi insediamenti. Si è inoltre sfruttato l’ECoC e si sono organizzati community events, per mascherare in parte la brutalità di un’operazione di speculazione dei valori immobiliari e sostanziale gentrification.
La questione è stata aggravata dalla contemporanea crisi dei mercati finanziari: le operazioni prodottesi a Liverpool hanno, infatti, dato luogo a un panorama di nuovi quartieri modello invenduti.
La campagna pubblicitaria di Liverpool First ha cercato di rendere la città “a thriving international city”. Questa stategia è culminata con la partecipazione all’Expo di Shanghai del 2010.
Liverpool è stata, infatti, rappresentata all’interno della kermesse internazionale attraverso tre parole chiave: Visit, Study, Invest. Ma questa thriving international city è sempre più lontana dall’effettivo retaggio della working class city, costruita soprattutto da fragili spazi liminali, interstizi e retro-porto, che avrebbero forse dovuto essere sfruttati più in un’ottica recycle, di riciclo sostenibile di pezzi della città contemporanea, che di sostituzione e dislocamento, un processo probabilmente senza ritorno.

Data di pubblicazione: 29 ottobre 2013