“Spazio (al) pubblico” è un titolo con cui si intende giocare su un doppio significato: lo spazio pubblico come categoria urbanistica e giuridica; lo spazio al pubblico come apertura, restituzione, legittimazione dell’azione e finalità pubblica. Se l’agire pubblico mediante la pianificazione urbanistica si legittima nel momento in cui produce, tutela e cura spazi condivisi, accessibili, significativi per la collettività, allora dare e riportare “spazio al pubblico” significa rilanciare il valore politico e pubblico dell’urbanistica come disciplina della trasformazione nel nome dell’interesse generale.
Le note che seguono sono una prima possibile risposta a questo interrogativo, una risposta per sottolineare l’urgenza di approfondire il problema, di allargarlo e nello stesso tempo di partecipare, ognuno con le proprie forze e con le proprie idee, al tentativo di risolverlo. Le parole scritte, purtroppo o per fortuna, impegnano a generalizzazioni (talvolta incomplete e/o parziali) ma hanno anche il pregio di circolare oltre i limiti di un convengo o di un evento circoscritto, di prestarsi alla riflessione e al confronto meditato. Le parole scritte hanno un senso se non rappresentano un soliloquio ma piuttosto il tentativo di un dialogo, se raccolgono le idee già note e a queste aggiungono altre idee.
La città, creata dall’uomo per garantirgli le migliori condizioni di vita, per offrirgli al massimo grado le “libertà urbane” (Campos Venuti 1967) proprie della civiltà moderna, mostra oggi alcune fra le più gravi contraddizioni della società contemporanea, intrinseche nel fine prevalente della città neoliberale, riconoscibile nel regime immobiliare privatistico basato sulla rendita fondiaria, che è sostanzialmente rimasta una delle caratteristiche del sistema economico del nostro paese.
Le “libertà urbane” evocate riguardano l’insieme dei diritti di cittadinanza urbana che possono essere garantiti solo da una pianificazione pubblica efficace e finalizzata all’interesse collettivo.
Non si tratta di libertà astratte, ma di libertà di accesso allo spazio urbano del welfare (servizi di interesse collettivo di ogni ordine e grado), di adeguate e sicure condizioni ambientali, di libertà di mobilità e relazione, di diritto alla casa, al lavoro e alla salute, come condizioni di uguaglianza; in ultima analisi, di libertà dalla rendita fondiaria e dalle disuguaglianze socio-spaziali. Le “libertà urbane” sono dunque il prodotto concreto della pianificazione pubblica democratica: dove questa manca, o è debole su questo versante, prevalgono invece le “libertà della rendita”, cioè la città governata da interessi privati e logiche speculative.
L’alternativa ad una città che non esalti soltanto le sedi della produzione di beni e di servizi terziari (con un prezzo e non con una tariffa), del consumo o della funzione abitativa e, sempre più, di quella turistica, come sola occasione di profitto e soprattutto di rendita, è una città che per essere al servizio della comunità concepisca l’insieme complesso delle principali funzioni urbane anche come ‘servizi’ che vanno offerti al più alto livello qualitativo e quantitativo, perché da esse i cittadini traggano ogni possibilità di benessere insediativo e ambientale.
I piani urbanistici, da quando sono stati introdotti e disciplinati, hanno sempre avuto una comune finalità ovvero quella di regolamentare l’uso del suolo, destinando, ad esempio, un’area alla residenza, un’altra alle attività produttive, altre ancora a viabilità o a servizi.
L’Italia repubblicana ha assegnato ai Comuni il compito di compiere tali scelte tramite l’attività di pianificazione in base ad una premessa su cui si fonda la stessa disciplina urbanistica: non esiste un’area per sua natura edificabile o, più precisamente, naturalmente destinata a costruzioni residenziali, industriali o commerciali piuttosto che a verde e servizi.
Ciò è infatti stato assunto nell’articolo 42 della Costituzione italiana che sancisce (Greco 2022), in apertura, un principio di duplice portata: da un lato, il diritto di proprietà privata è ‘garantito dalla legge’ e nei limiti di essa; dall’altro, la proprietà non è un assoluto incondizionato ma è “funzione sociale”. In poche righe, la Carta fondamentale riassume una visione del possesso che va ben oltre la mera titolarità legale: chi detiene risorse – un’abitazione, un terreno, un’impresa – assume anche un obbligo verso la comunità. Questa determinazione costituzionale ha prodotto una sorta di ‘ponte’ e di ‘equilibrio’ tra l’interesse privato e l’interesse collettivo, imponendo che l’uso della proprietà risponda non solo a logiche individuali ma contribuisca al progresso morale e materiale di tutta la società.
Si tratta di una fondamentale statuizione che riconosce la priorità dell’interesse collettivo rispettò al primato della titolarità soggettiva.
In ambito urbanistico, l’art. 42 ha avuto un impatto dirompente nella riformulazione del rapporto tra proprietà fondiaria e interesse pubblico, nel senso che la pianificazione urbanistica è lo strumento con cui si deve indirizzare l’uso del suolo secondo la funzione sociale, che la proprietà edilizia o del suolo non comporta il diritto automatico a edificare e che le regole e i vincoli urbanistici vanno considerati garanti e attuativi della funzione sociale.
La funzione sociale implica che la proprietà privata debba favorire lo sviluppo economico e sociale, evitare usi che possano danneggiare l’ambiente, la salute pubblica o i diritti altrui, essere distribuita in modo da non creare disuguaglianze sociali.
Nella nostra storia repubblicana, l’esaltazione del valore della solidarietà ha reso imprescindibile l’idea che la proprietà, seppure riconosciuta come espressione di libertà personale, non possa restare estranea ai bisogni della collettività. L’articolo 42 aggiunge un secondo comma che demanda allo Stato l’introduzione di misure di “espropriazione per pubblica utilità” e di “indennità” proporzionata, nonché la possibilità di vincolare “la proprietà privata” a “obblighi di utilità pubblica”. Qui si colloca l’eredità del pensiero solidarista: l’appropriazione privata, per essere legittima, deve anche produrre ricadute positive sui soggetti più deboli, riequilibrando squilibri e disuguaglianze.
In campo urbanistico, il principio della funzione sociale ha supportato l’introduzione della disciplina degli standard urbanistici (ex Dm 1444/1968) che si traduce nell’obbligo di destinare porzioni di suolo all’insediamento di attività e attrezzature pubbliche e di interesse collettivo e, più recentemente, dell’edilizia residenziale sociale. Attraverso contenuti e vincoli urbanistici del piano si prova a tradurre la promessa costituzionale, ad esempio, in alloggi a canone sostenibile per famiglie in difficoltà.
La comunità dell’uomo contemporaneo ha dunque una grande necessità di spazio, più ancora, ha bisogno di un controllo pubblico, democratico ed equo dell’uso dello spazio non solo della città ma anche di quello del nostro pianeta per rispondere alle prorompenti esigenze di sostenibilità e benessere delle comunità.
Per tale ragione è più che mai urgente una chiamata alla responsabilità delle amministrazioni locali, un’idea di pianificazione come garanzia di diritti sociali e civili nello spazio urbano.
Non basta fare urbanistica: occorre fare urbanistica con finalità pubblica, orientata alla redistribuzione, alla coesione, alla tutela dei beni comuni ed in tal senso il rilancio dello spazio pubblico può costituire la base materiale e simbolica per un nuovo patto tra istituzioni e cittadini.
Ridare “spazio al pubblico” non è solo uno slogan, è un atto politico: significa rimettere la cittadinanza, il diritto alla città e l’equità socio-spaziale al centro delle scelte urbanistiche. È un invito a restituire potere e senso all’azione pubblica nella città.
È necessario quindi affrontare la contraddizione fra il piano e la sua attuazione, trasformando il piano in uno strumento di buon governo, un telaio di riferimento di mediazione trasparente e democratica di interessi plurali, da ricomporre entro un quadro di legittimità.
La necessita di riformare il piano riconoscendone natura, finalità e modalità operative pertinenti e coerenti per affrontare le sfide complesse della contemporaneità (Talia 2024) resta pertanto un obiettivo tutt’altro che scontato da conseguire, soprattutto laddove tale riforma non può consistere, in nome dell’urgenza o dello snellimento delle procedure, nell’asservirla soltanto a qualche interesse di parte.
Nel contesto delle profonde trasformazioni urbane che interessano le città e i territori, è necessario riportare al centro del dibattito pubblico e tecnico l’idea che la pianificazione sia uno strumento di libertà urbana, capace di garantire l’uguaglianza nell’accesso ai diritti collettivi, a partire dall’organizzazione dello spazio, dall’abitare, dai servizi, a tal fine agendo in particolare lungo tre linee d’azione.
Equilibrare i rapporti fra diritti edificatori e carico urbanistico. Il piano urbanistico comunale deve esercitare pienamente il suo compito istituzionale: determinare l’entità e la localizzazione dei carichi urbanistici, cioè dei volumi edificabili, nel rispetto dell’interesse generale. È questa una funzione giustamente assegnata dalla legge ad un organo democraticamente eletto ovvero il Consiglio comunale e pertanto legittimamente rappresentante degli interessi di tutti. Solo il ripristino della responsabilità pubblica nella definizione delle condizioni di trasformabilità consente di tutelare le libertà urbane dei cittadini, contrastando la frammentazione decisionale e la potenziale colonizzazione del piano da parte di interessi particolari.
Redistribuire la rendita per rigenerare lo spazio pubblico. L’amplificazione delle rendite immobiliari impone di rinnovare i meccanismi di prelievo e redistribuzione del valore realizzando concretamente spazi e attrezzature di interesse collettivo (limitando, come eccezione, il ricorso alla monetizzazione degli standard e/o delle dotazioni di edilizia sociale). Le risorse prodotte dalla città devono tornare alla città: è necessario investite in infrastrutture pubbliche, verde, scuole, spazi comuni, ed abitazioni economicamente accessibili e in locazione rafforzando così il tessuto di libertà concreta che è alla base di ogni cittadinanza urbana.
Promuovere l’abitare come diritto. Ciò allude alla necessità di riconoscere che il tema dell’alloggio a prezzi accessibili rappresenta ancora un’emergenza sociale anche se caratterizzata da nuove specificità (come, ad esempio, quelle legate alle popolazioni migranti, alle giovani coppie, ecc.). L’assenza di politiche nazionali strutturate rende il piano comunale l’unico strumento effettivo per affrontare il problema, concependo l’abitare come un diritto fondamentale. Ciò richiede una governance territoriale dell’abitare, che colleghi casa, servizi, trasporti, lavoro per contrastare la polarizzazione urbana e riaffermare il valore pubblico della pianificazione come architettura di libertà condivise.
Sono queste tre linee d’azione che, insieme ad altre, possono convergere in una proposta: rilanciare il ruolo del piano come strumento di governo democratico del territorio, capace di ricostruire legittimità pubblica, fronteggiare le distorsioni del mercato, redistribuire benefici e oneri, garantire equità spaziale e diritti collettivi.
Campos Venuti G. (1967), Amministrare l’urbanistica, Einaudi, Torino.
Greco A. (2022), La Costituzione per tutti, Gribaudo, Verona.
Talia M. (2024), “L’importanza per il Paese di una legge di principi per il Governo del territorio”, Urbanistica Informazioni, no. 313, p. 73-74.