Urbanistica INFORMAZIONI

Il rapporto tra tecnica e politica negli anni del populismo

Premessa

Nella alternanza di fasi che hanno caratterizzato nel nostro Paese lo sviluppo e l’innovazione della pianificazione e del governo del territorio, il rapporto tra i saperi tecnico-disciplinari e l’esercizio della decisione pubblica e della mediazione degli interessi si è rivelato quasi sempre decisivo per il successo delle pratiche urbanistiche. E con risultati che dipendevano il più delle volte proprio dalla capacità del piano di connettere le conoscenze analitiche con le scelte di valore, e gli obiettivi di efficienza con l’appagamento, comunque parziale, della domanda di equità.
In quanto detentore di competenze specialistiche, l’urbanista è dunque solito fondare le proprie elaborazioni su analisi territoriali, modelli previsionali e strumenti normativi, di regolazione e di valutazione di impatto. Con una dipendenza dai saperi esperti che si è ulteriormente accentuata nel corso degli ultimi anni anche a seguito del cambio di paradigma maturato nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha visto il passaggio – per ora solo nominalistico – dalla nozione egemone di urbanistica a quella, ben più inclusiva, di governo del territorio.
Ma a questa dimensione tecnica, e alla acquisizione di una specifica attitudine alla razionalità, il planner non può fare a meno di associare, come si è detto, le metodologie e i contenuti tipici di una seconda dimensione, quella politica, che con la prima deve convivere, facendo in modo che il piano si trovi nelle condizioni di coniugare il rigore delle elaborazioni compiute nel rispetto dei principi di coerenza e di sistematicità con le scelte di valore che sono state formulate dai soggetti ed attori della pianificazione. A tali scelte è possibile affidare il bilanciamento dei differenti punti di vista che si contrappongono, nonché la selezione delle peculiarità di un processo di pianificazione che è anche il prodotto di un dibattito politico, e che deve essere in grado di ponderare interessi divergenti e potenzialmente conflittuali. Si tratta, in definitiva, di un procedimento che deve orientare la composizione di obiettivi pubblici e privati, e che deve saper facilitare la partecipazione dei cittadini alla elaborazione di una visione di insieme, alla redazione di un’agenda urbana e alla formazione delle decisioni sulle questioni più rilevanti.
Nel corso di una progressione quasi mai lineare, la disciplina urbanistica ha dunque fondato la sua evoluzione su una graduale intensificazione dei rapporti tra tecnica e politica, il cui mutuo condizionamento era sollecitato da un ampliamento del campo di interesse della pianificazione ben oltre il perimetro definito dalla sola crescita edilizia. In questa reciproca influenza di tecnica e politica i rappresentanti delle istituzioni, il personale della pubblica amministrazione e gli urbanisti hanno imparato a collaborare alla definizione dei confini dell’azione tecnica e, al tempo stesso, hanno appreso i “segreti” di una tecnica che poteva essere utilizzata per giustificare le decisioni politiche (Healey 2003).

La resistibile ascesa del populismo e la rottura dell’equilibrio tra tecnica e politica

Dopo una lunga incubazione dell’ideologia populista nell’Italia del secondo dopoguerra, abbiamo assistito in una lunga fase successiva dapprima all’improvvisa emersione, e poi al rapido sviluppo di movimenti e partiti politici destinati ad alimentare una generalizzata diffidenza nei confronti delle competenze tecniche e delle istituzioni rappresentative, con un impatto negativo assai rilevante sul rapporto tra razionalità scientifica e decisione politica, e in modo più indiretto sul prestigio e l’autorevolezza della pianificazione territoriale.
I mutamenti introdotti dall’ascesa del populismo in molte democrazie occidentali sono da tempo oggetto di studio da parte di una vasta letteratura, [1] che ha evidenziato le questioni più significative sollevate da questo fenomeno politico e sociale, ma qui mi limiterò a segnalare la capacità di questo movimento di proporsi come il principale antagonista delle élites, di sostenere l’esigenza di svalutare i principali soggetti della intermediazione e, infine, di affermare l’irrilevanza delle competenze tecniche e degli apparati istituzionali più consolidati.
Per effetto di questa critica serrata alla figura dell’esperto – urbanista, pianificatore, funzionario tecnico – quest’ultima viene rappresentata il più delle volte come estranea, autoreferenziale, se non addirittura ostile ai bisogni concreti dei cittadini. Tanto che in questa prospettiva la pianificazione del territorio finisce per smarrire la sua legittimità, e non viene più percepita come uno strumento al servizio della collettività, ma piuttosto come un ostacolo burocratico all’azione politica e alle iniziative dei soggetti privati.
Non solo; laddove l’approccio populista tende a privilegiare le decisioni rapide, semplificate e ad elevato valore simbolico, il ricorso ai tempi lunghi e alle mediazioni che si rendono necessari per la predisposizione di piani efficaci e condivisi viene giudicato negativamente, con la conseguenza di condurre al progressivo deperimento degli strumenti partecipativi e ad una crescente diffidenza nei confronti della valutazione tecnica e della competenza.
Naturalmente i tempi tecnici richiesti per l’implementazione delle diverse fasi ed attività coinvolte nel processo di pianificazione – spesso assai dilatati – costituiscono un’evidente barriera ad un impiego più generalizzato degli strumenti di governo del territorio, fino al punto da determinare un crescente scetticismo sulla capacità dell’agire urbanistico di dimostrarsi proficuo, e dunque tale da contribuire al conseguimento degli obiettivi fissati dalla società.
A fronte di questo pericoloso offuscamento dell’interesse pubblico conviene interrogarsi sulla possibilità di invertire questo cortocircuito, che può comportare una serie di rischi significativi per la collettività, e che si possono osservare a livello ambientale, sociale, economico e istituzionale. Per ristabilire un più equilibrato rapporto tra tecnica e politica è il caso di porre la dovuta attenzione al marcato incremento della complessità nella vita contemporanea, che tuttavia non viene adeguatamente percepito da una moltitudine di soggetti, che manifestano piuttosto una volontà esplicita di secessione rispetto alla responsabilità di provvedere in qualche modo alla soluzione dei problemi che ne deriveranno. [2]
Ma se l’aumento della complessità nella realtà attuale è un fenomeno diffuso e in continua crescita, che tende a caratterizzarsi per una maggiore interazione tra gli elementi costitutivi del cambiamento e un incessante aumento delle interdipendenze, allora il contrasto nei confronti della deriva demagogica e semplificatrice di questi anni non costituisce inevitabilmente un obiettivo politico, ma deve far parte di un impegno più generalizzato per promuovere un pensiero sistemico e una maggiore capacità di analisi, che permettano di affrontare in modo ben più efficace gli enigmi cognitivi del mondo contemporaneo.
È il caso di sottolineare a questo punto che il rapporto tra tecnica e politica, dopo essere entrato in crisi negli anni in cui le criticità delle politiche pubbliche e della pianificazione si erano manifestate con evidenza, può cambiare nuovamente anche a seguito del diffondersi delle nuove tecnologie, che hanno reso disponibili dati in tempo reale e strumenti di governo del territorio sempre più avanzati e performanti.
Questa nuova linea di tendenza apre dunque a riflessioni innovative sul futuro delle nostre città, e a un domani nel quale il rilancio degli studi di settore e il ruolo dell’intelligenza artificiale nella pianificazione urbana e territoriale potranno offrire il proprio contributo per ricucire quel rapporto tra tecnica e politica che negli anni che ci siamo lasciati alle spalle ha conosciuto una conflittualità particolarmente accentuata, e i cui effetti sono tuttora particolarmente evidenti nelle pratiche del governo del territorio (Papa 2022).

Verso la ricerca di nuovi equilibri tra l’importanza della conoscenza tecnica e il ruolo della politica nella definizione degli obiettivi e delle priorità sociali

Nel percorso che abbiamo compiuto in direzione del XXXII Congresso dell’Inu (che si svolgerà a Roma dal 22 al 24 maggio 2025) il tema che è stato posto al centro di questo contributo è comparso ripetutamente, ed è stato oggetto di considerazioni che riflettevano approcci e correnti di pensiero spesso differenti, ma che condividevano alcuni orientamenti di fondo che proverò di seguito ad evidenziare.
Un primo indirizzo significativo può essere individuato, a tale proposito, nel tentativo di perseguire la convergenza tra tecnica e politica nella difesa del principio di utilità, facendo propria l’idea che le decisioni politiche dovrebbero essere guidate dalla massimizzazione del benessere generale, misurato attraverso il ricorso ad un secondo principio, precisamente quello di utilità. A partire dalle teorie di stampo utilitarista, che affermano che l’azione più giusta è quella che porta alla maggiore felicità complessiva, si può ritenere che la tecnica – in questo caso la pianificazione e le altre discipline che concorrono al governo del territorio – debba fornire gli strumenti e le conoscenze indispensabili per valutare e implementare le politiche più efficaci in vista del raggiungimento di tale obiettivo.
Da questa implicazione di carattere più generale discendono due possibili conseguenze, entrambe assai rilevanti e reciprocamente interconnesse. Quanto alla prima conviene prendere atto innanzitutto che l’utilità non è un concetto universale, e che ciò che viene ritenuto opportuno da una determinata componente della società può essere considerato inutile, o addirittura svantaggioso, da una seconda. Ne consegue la compresenza contestuale di differenti “utilità” che tendono a competere o, nel migliore dei casi, a ricercare forme più evolute di compensazione.
Per quanto riguarda invece la seconda conseguenza che deriva dalla adozione di un’ottica utilitarista, essa discende almeno in parte dalle considerazioni precedenti, e comporta la necessità di domandare alla “tecnica” la ricerca della combinazione più appropriata di differenti e ‘parziali’ utilità, che la politica dovrà poi ricomporre grazie alla sua vocazione a realizzare una sintesi efficace tra diverse posizioni ed interessi contrapposti, e allo scopo di raggiungere obiettivi condivisi.
Si deve dunque alla difficoltà di perseguire più concretamente obiettivi di tale natura se negli anni più recenti gli esperti del settore hanno puntato con insistenza sulla individuazione di un’agenda urbana che definisse il perimetro nel quale praticare una collaborazione più efficace tra tecnica e politica nel governo del territorio. Operando in questa direzione si potrebbero creare le condizioni favorevoli per il ritorno a concetti e a programmi di ispirazione riformatrice che sono stati precocemente abbandonati per rispondere ad esigenze di mero contenimento dei costi della pubblica amministrazione. Ma che nella situazione attuale potrebbero offrire nuovo spazio per l’azione degli enti locali, e per favorire la sperimentazione di nuove misure di intervento in una serie di ambiti congeniali alla implementazione delle politiche pubbliche.
Il riformismo, in questo contesto, potrebbe offrire utili indicazioni per una serie di questioni che sono in attesa di risposte convincenti, come ad esempio nel caso del miglioramento della qualità dei servizi pubblici, della ottimizzazione delle politiche urbane, della promozione di un ambiente più inclusivo e sostenibile e della gestione più efficace delle risorse urbane. E, naturalmente, della predisposizione di un nuovo testo di legge per la riforma della disciplina urbanistica, ma di quest’ultimo tema abbiamo già ampiamente discusso in occasione della presentazione della proposta dell’Inu (2024) di una Legge di principi fondamentali e norme generali per il governo del territorio e la pianificazione.

Alcune provvisorie conclusioni

Anche sulla base delle considerazioni che abbiamo appena sviluppato siamo ormai in grado di sostenere che la contesa tra tecnica e politica può avviarsi verso una positiva ricomposizione. Partendo, ad esempio, dal presupposto che le politiche urbane possono essere considerate un sottoinsieme di politiche pubbliche che si concentrano sulla gestione e lo sviluppo delle città e dei territori urbani. Facendo ricorso ai medesimi principi e meccanismi delle politiche pubbliche in generale, esse risultano tributarie di uno stesso bagaglio di conoscenze tecniche tanto nella definizione di obiettivi e nella formulazione delle strategie, quanto nella implementazione degli interventi e nella valutazione dei risultati cui fa riferimento la politica tout court, anche se maggiormente focalizzate in questo caso su un determinato ambito territoriale e su specifici settori di intervento.
In virtù di questa crescente convergenza tra tecnica e politica, si può ritenere che il ruolo dell’attore pubblico possa indirizzarsi ben oltre la semplice allocazione delle risorse disponibili o il superamento dei vincoli allo sviluppo, e cerchi al contrario di sviluppare energie positive mediante la creazione di beni comuni ed esternalità positive. [3] Si pongono le basi, in questo modo, per contrastare efficacemente quegli orientamenti che tendono a semplificare e a polarizzare il discorso politico, riaffermando il valore dell’intermediazione e l’importanza del ruolo dei tecnici e degli specialisti come strumenti fondamentali per esaltare la qualità democratica e la complessità del processo decisionale.
Nella prospettiva indicata si pongono dunque le basi per la elaborazione di politiche di più lungo periodo, con cui fare in modo che l’agire urbanistico possa trovarsi nelle condizioni di offrire un contributo risolutivo alla elaborazione di una visione al futuro che ci aiuti a superare le criticità della fase che stiamo attraversando, in cui le civiltà urbane dell’Occidente sono fortemente condizionate dal perdurare dell’inverno demografico, e i rischi della transizione ecologica sembrano destinati a penalizzare pesantemente il nostro sistema insediativo.
Per l’insieme di questi motivi le strategie di intervento che si ispirano alla cultura della rigenerazione territoriale e urbana possono costituire la base di una visione al futuro della società contemporanea, e potrebbero far leva su una molteplicità di piani argomentativi, riconducibili a seconda dei casi alle dimensioni sociali, ambientali, economiche e culturali del governo del territorio.
Seguendo questo schema interpretativo è possibile pensare alla rigenerazione come a un ‘laboratorio di futuro’, nel quale sperimentare soluzioni innovative a problemi complessi come l’invecchiamento della popolazione, la frammentazione sociale, il cambiamento climatico e gli impatti enigmatici della transizione digitale.
Richiamando alcune considerazioni che abbiamo già sviluppato in questo contributo, non possiamo fare a meno di osservare a questo punto che la rigenerazione è un processo politico oltre che tecnico, e che negli interventi che vengono realizzati in suo nome è possibile alimentare una cultura della cittadinanza attiva e della cura condivisa dello spazio urbano che rappresenta un valore fondamentale per il futuro delle società democratiche. [4]
In definitiva, conviene sottolineare che la rigenerazione territoriale e urbana non è solo un’azione locale, ma può – e deve – essere inquadrata come parte integrante di una visione strategica pluri-livello. Tale visione consente infatti di costruire un quadro di riferimento capace di connettere la scala urbana e quella territoriale, e integrare le dinamiche locali con gli obiettivi di pianificazione sovralocale, regionale e nazionale. In questo senso, la rigenerazione diventa uno strumento per affrontare in modo sistemico le trasformazioni dei territori, promuovendo sinergie tra politiche settoriali e territoriali.
Un approccio pluri-livello di questo tipo permette dunque di valorizzare la complementarità tra processi bottom-up – radicati nelle comunità, e capaci al tempo stesso di cogliere esigenze specifiche e di attivare le risorse locali – e strategie top-down, necessarie invece per garantire coerenza, visione d’insieme e coordinamento tra attori istituzionali. In tale prospettiva la rigenerazione tende a configurarsi come uno spazio ideale di collaborazione tra pubblico e privato, nel quale l’interesse collettivo e le logiche di impresa possono sperimentare modalità innovative di collaborazione disponendo di un quadro normativo e strategico che ne orienti gli esiti verso obiettivi di sostenibilità, di equità e di qualità dello spazio urbano e territoriale.

[1Tra i molti studi pubblicati negli ultimi anni su questo tema mi limito a segnalare due studi: Judis (2016), Müller (2017).

[2Su questo allarmante paradosso mi sono soffermato in un mio recente contributo (Talia 2025).

[3Un utile riferimento è offerto, a tale proposito, dalla teoria dello sviluppo di Albert O. Hirschman (1968), che assegnava al soggetto pubblico il compito di sviluppare progettualità e di generare opportunità positive correggendo quei fattori che possono ostacolare il perseguimento dell’interesse generale.

[4Vedi anche Iaione (2011).

Riferimenti bibliografici

Gruppo di lavoro Inu (2024), “Legge di principi fondamentali e norme generali per il governo del territorio e la pianificazione. Articolato”, Urbanistica Informazioni, no. 313, p. 157-173.
Hirschman A. O. (1968), La strategia dello sviluppo economico, FrancoAngeli, Milano.
Iaione C. (2011), “La città come bene comune”, Italianieuropei, no. 3.
John B. J. (2016), The Populist Explosion: How the Great Recession Transformed American and European Politics, Columbia Global Reports.
Müller J.-W. (2017), Cos’è il populismo, Università Bocconi Editore, Milano.
Papa A. (2022), “Intelligenza Artificiale e decisioni pubbliche tra tecnica, politica e tutela dei diritti”, Federalismi, no. 22, 20.
Patsy H. (2003), Il piano come processo comunicativo, FrancoAngeli, Milano.
Talia M. (2025), “In difesa della complessità”, Urbanistica Informazioni, no. 319, p. 9-12.

Data di pubblicazione: 23 maggio 2025