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Urbanistica e Covid

Sussiste una correlazione fra i temi dell’urbanistica e la pandemia del Covid 19? Indubbiamente sì, appena si consideri il fatto che anche se le città, grandi e piccole, nel corso della loro storia hanno assunto, a seconda delle loro diverse matrici generative, forme talmente dissimili da non consentire una analisi comparativa immediata e organicistica fra di esse, comunque hanno trovato il loro comune denominatore, la loro più profonda e autentica ragion d’essere, nella funzione della tutela della salute fisica e morale dei loro abitanti, quale premessa e promessa di qualsivoglia emancipazione individuale e collettiva.
Nel Medioevo e nel Rinascimento furono le mura il simbolo della potenza difensiva contro la minaccia materiale rappresentata dalle masnade dei briganti, dalle incursioni dei predatori che arrivavano dal mare, dagli eserciti dei signorotti. Molto più tardi, nell’Ottocento, a fronte del fenomeno dell’urbanesimo indotto dall’attrazione magnetica esercitata sulla popolazione rurale dalle grandi industrie cittadine, divenne una necessità provvedere alla realizzazione di un sistema igienico di protezione della salute assai meno nobile, eppure prezioso, costituito dalle reti fognarie. Un presidio ascoso ma decisivo, come ammoniva Lawrence Wright nel suo libro Storia della civiltà in bagno.
Dopo l’amara presa d’atto, avvenuta nel corso dei due conflitti mondiali, che le città non sono difendibili dalle minacce provenienti dallo spazio aereo, grazie alla pax imposta dall’atomica, la partita sulla sicurezza urbana, in connessione al progressivo e solo parzialmente governato fenomeno dell’urban sprawl, si è giocata sui temi della sostenibilità ambientale, dell’inclusione sociale, della sicurezza del e sul lavoro, del controllo dell’ordine pubblico attraverso le nuove tecnologie di videosorveglianza. Oggi le grandi e medie città sono macchine complesse, nelle quali vivono e abitano milioni di persone che abbisognano di servizi pubblici di trasporto sempre più ramificati, della revisione e del potenziamento delle infrastrutture per lo spostamento su gomma o rotaia, di collegamenti efficienti con gli aeroporti, della capillare diffusione delle ITC, della rigenerazione di edifici e quartieri per il terziario e il residenziale, di aree industriali deframmentate, di poli scolastici e di formazione innovativi e di presidi sanitari adeguati. All’interno delle città avviene la ricontestualizzazione dal virtuale al reale dei processi finanziari e di innovazione culturale, scientifica e tecnologica che attraversano la rete mondiale di cui esse sono nodi.
E come tutti i sistemi complessi, oggi le grandi e medie realtà urbane – spesso vere e proprie città-stato sul piano fattuale, al di là degli ordinamenti giuridici, – scoprono di essere diventate i luoghi della massima insicurezza di fronte all’invisibile, eppure letale, minaccia del virus Sars 2 –Covid 19. Piaccia o meno, esse sono motori che alimentano flussi incessanti di persone al loro interno, nonché da e verso l’esterno. Si tratta di flussi destinati a essere potenziali vettori e moltiplicatori del contagio, perché non sono controllabili nelle loro componenti discrete, cioè in termini di verifica delle condizioni di salute dei singoli individui che li compongono (ancorché siano stati introdotti gli scanner manuali per leggere la temperatura corporea dei viaggiatori in transito).
In Cina, ove tutto è iniziato, il regime – efficiente in quanto privo dei freni richiesti a una democrazia compiuta – è riuscito a imporre prontamente il coprifuoco a Wuhan per contenere l’epidemia. Le immagini dei mezzi dell’esercito dispiegati e delle sanificazioni delle strade, volutamente diffuse per dare esempio d’efficacia, hanno fatto il giro del mondo e diffuso un senso di incertezza. In Italia si è giunti per gradi, D.L. dopo D.L., DPCM dopo DPCM, e non senza contraddizioni e ripensamenti, a una serrata delle attività amministrative, commerciali, industriali e, financo, alla consegna ai domiciliari della popolazione – con un’evidente e pochissimo tematizzata contrazione dei diritti costituzionali in ordine alla libertà di movimento, aggregazione e intrapresa personale, sia pure in nome del bene comune rappresentato dalla salute.
In Italia il virus ha trovato terreno più fertile in Lombardia, la città infinita (incompiuta e in perenne divenire) come l’hanno definita Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese. La densità insediativa e la presenza di una capitale economica come Milano, l’hanno resa più permeabile al contagio. Più resiliente si è rivelata la città reticolare veneta, articolata nei diversi ranghi delle città capoluogo (le maggiori non arrivano ai trecentomila abitanti), delle cittadine medie e dei paesi che contrappuntano il tessuto territoriale in una maglia che assorbe la campagna. Quello che sembrava il limite e il difetto critico della città diffusa veneta, il suo eccessivo dispiegamento territoriale, al tempo del Corona virus si è rivelato essere un elemento frenante per la diffusione del contagio.
Insomma, l’eccessivo dimensionamento urbano, con la relativa concentrazione di abitanti, è il tema chiamato in discussione dalla diffusione del virus, ente privo di vita autonoma e quindi parassita. Le città che viste dall’alto in volo notturno, grazie alla rete dell’illuminazione pubblica, appaiono essere omomorfiche alle reti neuronali, luoghi della ragione, cedono al regresso irrazionale proprio non della paura, ma del panico – il sentimento suscitato dal suono del flauto di Pan, divinità rurale e primitiva, a-politica nel senso di estranea alla polis.
Con l’arrivo del corona virus, il flauto panico è risuonato nell’arena dell’opinione pubblica, il cui perimetro ormai non è definito solo dai mass-media tradizionali, quali la radio e la tv, ma anche dai social (semmai vi fosse stato il bisogno di aumentare il rumore di fondo con notizie che sfuggono a ogni controllo e validazione). Nell’esigenza di semplificare i messaggi, si è fatta strada l’idea che fosse stato profetico Bill Gates nel 2015, quando ebbe a dire che a minacciare il mondo non sarebbe stata una nuova guerra ma una pandemia. A dire il vero, l’autorevole personaggio era stato preceduto da generazioni di scrittori e registi di fantascienza, che in modo rabdomantico avevano avvertito qual era il tallone d’Achille delle metropoli: la loro vulnerabilità al più antico dei nemici dell’umanità, il virus, perché la sua diffusione è favorita dalla densità insediativa realizzata a livello globale dalle politiche urbanistiche proprie di un universo economico che ha trasformato il profitto in fine e l’uomo in mezzo.
Insomma, siamo chiamati a fare i conti con la singolarità dell’urbanismo contemporaneo, espressosi nell’esplosione di periferie anonime e insicure, che negano quel canone umanistico che aveva improntato di sé il farsi delle città storiche europee, costruite secondo una metrica compositiva che assicurava le piazze per i mercati e la frequentazione, riservava gli edifici simbolicamente eloquenti al sacro e al politico, conservava una misura umana nella dimensione dell’abitare. Non che in tale fenomeno mancassero i difetti, le contraddizioni e le ingiustizie, anche clamorose e inaccettabili, sarebbe disonesto negarlo, ma la sproporzione col presente alimenta la nostalgia per paesaggi urbani almeno comprensibili.
È pensabile, per prevenire mali futuri ancora più gravi, umanizzare gli ambiti urbani esistenti decongestionandoli? La risposta, ovvia, è che difficilmente si potrà riportare le città a dispiegamenti spaziali utili a contenere la diffusione di virus e altre emergenze biologiche. Ciò che è fatto capo ha. Piuttosto due sono i fattori che dovrebbero essere presi in esame per tracciare una nuova road map al tempo dello spaesamento procurato dall’emergenza del Corona virus.
Il primo è il momento inaspettato, personificato da Kairos, la divinità del tempo opportuno, che nell’antichità si contrapponeva a Kronos, il dio del tempo sequenziale all’interno del quale per lo più concepiamo le nostre attività ordinarie. L’ansia procurata dall’immersione negli spazi della reclusione domestica, impostaci dalle autorità per ridurre il contagio, può o far emergere psicosi latenti o regalare il piacere del tempo ritrovato per la famiglia, le buone letture, la meditazione e, per i credenti, la preghiera – con il pensiero rivolto a chi soffre. Il reporter Paolo Rumiz, dopo una vita dedicata ai viaggi nello spazio e nel tempo, scrive che il limite della soglia di casa gli si presenta ora quale epifania di percorsi interiori diversi e appassionanti. Nel momento in cui le città si fermano, ai loro abitanti, compresi nei gusci delle case, degli appartamenti o dei posti di lavoro, è concesso un movimento diverso, quello del pensiero, dei sentimenti e delle idee. E proprio tale movimento immateriale in ogni epoca ha alimentato le rinascite urbane dopo le crisi.
Il secondo fattore è quello del limite, personificato da Nemesi, la dea che punisce l’hybris, la smodatezza dell’uomo. Nella Babele del villaggio globale, vaticinato da Marshall McLuhan, ci eravamo illusi che il trionfo della tecnica ci preservasse da minacce primitive come la pandemia, quando invece l’interconnessione fra i continenti assicurata dai voli aerei spianava la strada proprio alla diffusione delle infezioni. Il virus ci restituisce alla misura della saggezza, ci obbliga a fare i conti con i temi rimossi dell’imprevedibile, della morte e del sacro e impone la solidarietà fra comunità fino a ieri rivali. Se il compito delle città era ed è quello di garantire la sicurezza all’interno del loro perimetro, oggi il virus ci impone di prendere atto che il perimetro si è spostato al mondo intero, e che – come ammoniva il poeta Paul Valery, – le considerazioni puramente nazionali portano le nazioni alla rovina. La ricerca di un vaccino ci ha costretti a comprendere che il successo di un ricercatore, ovunque esso si trovi, diverrebbe quello di tutti, perché siamo concittadini di cosmopoli.

Data di pubblicazione: 4 aprile 2020