Urbanistica INFORMAZIONI

Ricordo di Bernardo Secchi

Cari amici,
il 15 settembre Bernardo Secchi ci ha lasciato. È stato un dirigente dell’Inu e ha diretto la rivista Urbanistica dal n. 78 del 1985 al n. 101 del 1990. Sotto la sua direzione la rivista cambia progetto editoriale e veste grafica, aderendo alle mutazioni dell’urbanistica italiana, pur rimanendo espressione della libertà di ricerca e dell’ambizione costruttiva dell’Inu.
Ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’Inu da giugno 1983 a settembre 1990; e della Giunta esecutiva da giugno 1983 a novembre 1986, sotto la presidenza di Edoardo Salzano.
La sua riflessione ha lasciato una traccia profonda nel pensiero urbanistico contemporaneo. Nell’Inu ha contributo a far nascere e tener viva una riflessione critica sul ruolo dell’urbanistica e della sua strumentalità nel rispondere alle domande sociali e territoriali dell’abitare e del vivere.

Con questa breve nota pubblicata sul sito istituzionale dell’Inu e della rivista Urbanistica Informazioni abbiamo voluto ricordare e segnalare il dolore che la notizia della scomparsa ci ha provocato.
Per incominciare a colmare il grande vuoto che ha lasciato in tutti noi, senza rinunciare a progetti più ambiziosi che vedranno, l’intera comunità scientifica e dei suoi amici e collaboratori lavorare ancora sui suoi insegnamenti, pensiamo sia un doveroso omaggio ricordare Bernardo Secchi con dei contributi (quasi in forma di lettera) che sappiano testimoniare il suo insegnamento, il suo lavoro la sua figura.

Francesco Domenico Moccia
Francesco Sbetti

I contributi sono stati chiesti ad un gruppo appartenente alle tre diverse generazioni di amici e collaboratori vicini a Bernardo Secchi, alla presidente dell’Inu e al direttore di Urbanistica; alcuni ci hanno risposto e pubblichiamo la loro “lettera” altri hanno preferito un ricordo in silenzio. Ci sarà tempo per tornare a riflettere e studiare, chi volesse comunque mandare un contributo, UI continuerà a raccoglierli e renderli pubblici.

Quando è arrivato a Milano da Venezia, assieme a Paolo Ceccarelli, Pier Luigi Crosta e Bruno Gabrielli, aveva portato una ventata di aria fresca in una Facoltà di Architettura del Politecnico che mostrava evidenti segni di stanchezza: era ancora in corso una sperimentazione tanto celebrata quanto fuori controllo, che impediva agli studenti di capire come costruire la propria formazione. Una scuola che era diventata improvvisamente di massa e molto di sinistra ma dove paradossalmente solo le elites riuscivano a navigare.
Il compito che ha assunto come Preside della Facoltà dal 1976 è stato quello di avviare la faticosa ricostruzione di una organizzazione chiara, di percorsi formativi ben strutturati e di una concezione dell’università come luogo di ricerca e non solo di insegnamento.
Per chi di noi si era avvicinato all’urbanistica, per la sua maggiore rilevanza sociale, il contributo di Bernardo Secchi è stato decisivo: era la promessa di una disciplina basata sul rigore metodologico, aperta al dialogo interdisciplinare e radicata nella cultura internazionale.
Posso ricordare almeno tre fasi del suo percorso intellettuale e del suo insegnamento: una prima quasi da economista territoriale (il libro “Squilibri territoriali e sviluppo economico” del 1974), una seconda di apertura verso l’approccio di politiche e l’analisi del linguaggio dei testi urbanistici (il libro da lui curato “Partiti amministratori e tecnici nella costruzione della politica urbanistica” del 1984 e “Il racconto urbanistico” dello stesso anno). Infine l’approdo ad una attività di progettazione urbanistica, prima solo sperimentale (il Piano di Jesi del 1984) e poi sempre più intensa allargatasi nella collaborazione con Paola Viganò alle maggiori città Italiane e alle più importanti città europee: Anversa, Parigi, Bruxelles, Mosca.
Il segno che ha lasciato in tutte le fasi che ho conosciuto è stato profondo: quando ha iniziato a progettare piani in molti lo abbiamo criticato per aver abbandonato il campo delle scienze sociali per buttarsi nella professione. In quello che ha fatto ha dimostrato che devi affrontare e conoscere la città da molti punti di vista per potervi intervenire con saggezza. Sono convinto che la innovazione profonda che ha determinato nella progettazione urbanistica in Italia e in Europa sia stata proprio il frutto delle profonde esplorazioni che aveva compiuto nella ingegneria, nella economia, nella sociologia, nella scienza politica, nella architettura, nella letteratura.
Il mio rapporto con lui è sempre stato particolare: non ero un suo allievo, facevo parte del gruppo del suo amico e collega Pier Luigi Crosta, che Bernardo aveva sempre stimato. Quando andavo ad assistere alle sue bellissime lezioni, avevo sempre l’impressione che si rivolgesse in particolare a me (forse lo pensavano tutti: era questa la sua grande abilità), per conquistarmi al suo vasto gruppo di “seguaci”. Questo rapporto è poi continuato negli anni. Quando ho fatto il concorso Associati era il presidente di commissione e al termine della mia lezione si è alzato, e ha detto “Bravo Sandro, hai fatto la lezione come avrei desiderato farla io!”. Sono tornato da Roma volando mi ha fatto capire che potevo farcela. Poi non ho vinto quel concorso ma mi ha chiesto di scrivere la lezione per un libro che aveva in progetto di fare.
Mi ha chiamato a Prato ad incontrare il suo gruppo per raccontare le mie esperienze di progettazione partecipata, abbiamo lavorato insieme a Pesaro, dove io mi occupavo di coinvolgere i cittadini alla costruzione del Piano. A Bruxelles, dove mi avevano chiamato a commentare il bel lavoro fatto con Paola.
Ogni volta ho cercato di imparare tutto quello che potevo dalla sua straordinaria capacità di comunicare la conoscenza.
Penso davvero che abbia stabilito la misura di cosa vuol dire essere uno scienziato che si occupa di città e territorio, un urbanista capace di progettarne le trasformazioni, un professore universitario che insegna a farlo.
Sandro Balducci


Caro Bernardo,
nel mezzo dell’attuale dibattito politico schiacciato da un lato su presunte riforme istituzionali e statuto dei lavoratori e dall’altro su rinnovati “Scontri di civilità” alla Sam Huntington mi sembra che il contributo della nostra disciplina sia evaporato con il sia pur timido tepore di questi ultimi tempi. È come se i grandi temi su cui hai lavorato per tanti anni, e che ci hanno accomunato, non interessassero più a nessuno. E tra questi in particolare si siano dissolti quelli relativi all’inclusione e alla diseguaglianza. Sbarcano a migliaia i disperati di tutte le parti del mondo che cercano rifugio negli interstizi delle nostre città, la povertà diffusa porta ad abitare in condizioni che sembravano sparite per sempre, ci sono vecchi e bambini senza servizi adeguati, distretti industriali semi abbandonati e senza speranza di ripresa, grandi zone abitate ridotte a discariche. Forse le differenze tra la città dei ricchi e quella dei poveri su cui hai riflettuto non sono mai state così forti e così interdipendenti anche a livello globale. Alcuni di questi fenomeni potranno forse essere in qualche modo corretti, ma altri no: penso alle migrazioni di massa, alle trasformazioni delle geografie economiche che hanno caratteristiche epocali.
Eppure oggi il dibattito, la riflessione su tutto questo sono congelati, inesistenti. Esce Le capital au XXI siécle e ci sono dei brevi sussulti; gli emigranti annegati nel Mediterraneo dal 1993 sono ormai 20.000 ma ci si ricorda di loro a intermittenze; nelle nostre città le baraccopoli nascono, sono distrutte, rinascono di continuo. Così come le società a cui appartengono, anche le città europee si chiudono nel proprio egoismo, difendendo equilibri precari, fingendo che quei grandi problemi si risolvano da soli o siano affrontabili con furbizie tecnologiche e piccoli ritocchi. Non ti sembra un po’ triste e ridicolo che con tutto quello che sta accadendo attorno a noi, i temi che sembrano appassionare di più gli urbanisti siano le smart cities, la “creatività” urbana, i ritocchi al disegno di legge Lupi, o l’Expo? Ai tempi del Pim si pensava con più coraggio.
Ha senso tutto questo? Che ne dici se riprendessimo a lavorare su temi che ti sono stati cari e su cui ci hai dato tanti suggerimenti importanti, come quelli della diseguaglianza spaziale, del bisogno di una casa, di città più eque? Forse sembrerebbe un atto generoso ma un po’ ingenuo. Ma con il tuo lavoro non ci hai forse insegnato ad essere generosi, proprio con la giusta ingenuità intellettuale che solo i generosi hanno?
Forse qualcuno dei tuoi più giovani e bravi collaboratori e dei tuoi allievi potrebbe darci una mano. Potrebbe riprendere e continuare il filo di un discorso, messo da parte per un po’, ma che è alla base del nostro impegno di urbanisti. Pensa solo alla questione dell’immigrazione da tante diverse regioni del mondo; a una società che diventa inevitabilmente più frammentata e conflittuale, che non tende neppure a integrarsi, ma che al tempo stesso si arricchisce di moltissimi elementi culturali nuovi, di nuovi protagonisti, di nuove opportunità. Pensa ai nuovi modi di organizzare e far funzionare il territorio che ne nasce. È una questione di estrema importanza per il futuro che tuttavia non esiste nei nostri ragionamenti, nel nostro immaginario spesso costruito su città finte come Dubai o patetiche come i centri storici. Proviamo a lavorarci su?
Paolo Ceccarelli


Bernardo Secchi ha dato dignità scientifica all’Urbanistica, più di ogni altro.
Il suo contributo ha rinnovato la disciplina sui due versanti dell’analisi e del progetto, con una operazione che, rendendo autonomi l’uno e l’altro, ne ha stabilito le relazioni profonde.
Noi urbanisti dobbiamo essergli profondamente grati per tutto questo, e per altro ancora. Il suo rigore nell’elaborazione teorica ha costituito un insegnamento che, per intere generazioni di studenti, e per tutti noi urbanisti, è stato rifondativo, ed ha stimolato un ampliamento di orizzonti disciplinari mai prima indagati.
Grazie Bernardo, anche per il linguaggio che ci hai insegnato ad adoperare, per i riferimenti sempre puntuali e stimolanti che ci hai elargito, per averci anche in qualche modo sprovincializzato, ed averci mostrato con l’impegno nel lavoro, l’Europa ed il mondo.
L’ultimo suo contributo, che riguarda l’analisi del sempre più preoccupante fenomeno del divario ricchi/poveri, costituisce a mio avviso il suo testamento, richiamando noi urbanisti alle nostre responsabilità.
Alla fine, ci ha ricordato quella componente etica in assenza della quale l’urbanistica nella società attuale non avrebbe senso, né potrebbe insegnare né essere insegnata.
Bruno Gabrielli


Scompare Bernardo Secchi, urbanista e docente in molte università italiane e europee, fra cui il Politecnico di Milano, di cui aveva presieduto la facoltà di architettura fra gli anni settanta e ottanta, e lo IUAV di Venezia dove ha fondato il dottorato in Urbanistica e dove ha terminato la sua carriera; editorialista in Casabella di Gregotti, poi direttore di Urbanistica, la rivista dell’Inu, negli anni in cui gli studi regionali nati dal planning e dall’analisi economica si appropriavano dello strutturalismo, fra i primi studiosi a dedicare attenzione al fenomeno dello Sprawl, con Francesco Indovina ne aveva ridefinito il senso chiamandola "città diffusa". In polemica con la maggior parte degli altri studiosi ne ha sempre sottolineato il carattere di radicamento e di lunga durata, mostrando come certe caratteristiche della "villettopoli" della pianura padana non sono una nemesi patologica di un peccato originale di sviluppo frenetico, ma sono in definitiva l’esito del lungo processo di erosione del limite fra città e campagna iniziato nell’alto Medioevo. Questa attitudine allo studio dei territori capace di integrare economia, geografia, studi sociali alla morfologia del costruito e delle infrastrutture, gli ha permesso di studiare con lo stesso grado di appropriatezza territori molto differenti fra loro, eppure in qualche maniera omologhi, come le Fiandre e il Veneto, e di superare prima di altri molte barriere ideologiche.
In Italia quasi non esiste città che Bernardo Secchi non abbia studiato e progettato, coinvolgendo un numero sempre molto grande di studenti, professionisti, studiosi, politici, fotografi, scrittori, spesso assumendo posizioni difficili, ambigue e molto fraintese, come è successo per il piano di Brescia. Senza l’immaginario di Guido Guidi sarebbe anche difficile comprendere il significato diverso dato ai paesaggi e ai territori marginali che Secchi ha contribuito a inventare. Autore fra gli altri dei piani di La Spezia, della Valle del Foglia, per Prato, per il Veneto, per le Fiandre; con Paola Viganò ha ragionato del dissolversi dell’urbanistica in grandi progetti urbani puntuali e della necessità di visioni per il futuro d’Europa a partire dal progetto di parti di città; ipotesi sperimentate con il piano e il cimitero di Koortijk, il piano, I parchi e gli spazi pubblici per il riuso di Anversa, fino all’invito di Sarkozy per la Parigi del post-Kyoto e della nuova Mosca, prima del ritorno di Putin. Una delle cose che ripeteva spesso è che la difficoltà di studiare e fare un piano per un piccolo comune di provincia sono esattamente le stesse di quelle di una grande capitale. E proprio allo studio della concentrazione urbana e dei suoi effetti ha dedicato gli ultimi sforzi, scrivendo La città dei ricchi e la città dei poveri, edito da Laterza e pubblicato nel 2013, in cui raccontava l’esito territoriale dell’acuirsi della disparità economica, come una mappa per leggere Piketty, con il suo Capitale del XXI secolo, riprendendo il tema dello squilibrio territoriale, già studiato negli anni settanta, ma con un’attitudine radicalmente diversa da allora, più progettuale e meno analitica, più descrittiva e meno ideologica.
Che sia una figura controversa e plurivoca è evidente anche dalle letture differenti che in questi giorni si fanno della sua attività. Viene anche il dubbio che le ragioni dei fraintendimenti derivino dalla mancanza di coraggio dei suoi interlocutori, oltre che dalle tante sfide affrontate sempre tutte insieme e sempre in pochissimo tempo. Di questa mancanza di coraggio e di capacità di visione vediamo le tristi conseguenze nella cronaca territoriale e politica di questi giorni. Uno dei pregi di Bernardo Secchi è stato il non aver mai ceduto a questa mediocrità.
Si racconta che il premio Nobel sia nato perché per un errore di trascrizione, qualcuno aveva annunciato la morte di Alfred Nobel, mentre a morire era stato suo fratello. Per questo ad Alfred Nobel era toccato lo strano caso di leggere il suo necrologio. La delusione e la rabbia per il fatto di vedere che tutti lo ricordavano solo come l’inventore ricchissimo di un’arma in grado di fare danni spropositati lo fecero riflettere al fatto di volere essere ricordato altrimenti, e da qui l’istituzione del premio.
Chissà oggi, se leggesse i suoi necrologi - in alcuni dei quali passa per essere il legittimatore della città Berlusconiana, in altri come un grande genio, parola di cui ha sempre diffidato, in altri ancora come un maestro pieno di accorati adoratori, cosa che non è stato - chissà oggi cosa si inventerebbe. Ecco mi piacerebbe poterglielo chiedere. Forse, come un altro ingegnere, scriverebbe un romanzo.
Con Bernardo Secchi l’Italia perde un testimone lucido, acuto e spregiudicato delle profonde trasformazioni dal dopoguerra ad oggi; uno studioso che se ne va lasciandosi dietro molti allievi e nessuna scuola.
Irene Guida


Caro Francesco,
la tua iniziativa mi pare lodevole e opportuna, ci sarà tempo per una riflessione di maggior respiro, Bernardo è stato uno dei direttori di Urbanista, ha messo a servizio di quella direzione la sua intelligenza e il suo impegno con risultati notevoli, mi pare giusto che Urbanistica Informazione, la figlia “rapida” della maggiore rivista lo ricordi.
La sua morte è una perdita rilevante per la cultura è principalmente per quelle discipline di cui ci occupiamo, anche perché continuava a produrre riflessioni e analisi sulla città e sul territorio sulle quali potevi anche non essere d’accordo ma che comunque costringevano a una continua riconsiderazione metodologica.
Bernardo, nonostante i suoi successi accademici e professionali, è stata una personalità controversa, i suoi molteplici interessi, i suoi diversi approcci alle questione dell’organizzazione del territorio, i suoi riferimenti “anomali” ed estranei al corpo della disciplina, spesso lo portavano a posizioni che la nostra categoria di studiosi, spesso anchilosato, non condivideva o, peggio, facendogli torto, lo riproduceva in modo acritico.
Bernardo Secchi mi è stato amico e complice in molte iniziative culturali, soprattutto nella costruzione del corso di laurea di Urbanistica; insieme ad altri eravamo un gruppo che si è sforzato di dare contributi disciplinari e organizzativi al disegno di Giovanni Astengo. Abbiamo fatto alcune cose in comune, abbiamo condiviso analisi e prospettive, ma ci siamo anche divisi, capita agli amici, sebbene io continuassi “da lontano” a seguire il suo lavoro e la sua riflessione (penso alla sua direzione di Urbanistica, ai suoi scritti su Casabella, per esempio), ma non soltanto perché si trattava del lavoro di un amico lontano, ma perché trovavo criticamente interessante quel lavoro e quella riflessione. Negli ultimi anni ci siamo riavvicinati, umanamente e disciplinarmente, ma non è di questo che voglio parlare, non voglio né commuovere né commuovermi, non voglio ripercorrere legami, lacerazioni, riannodazioni, vorrei se mi riesce, ricordare i contributi di Bernardo degli anni ’60, anche perché si tratta di contributi rilevanti e spesso dimenticati.
Ha dato un notevole contributo alle questioni dell’analisi del territorio e della città; la sua antologia del 1965 (Analisi della struttura territoriale, pubblicata nella collana di economia della Franco Angeli) ha costituito un evento importante. Con quella antologia testi importanti sono potuti diventare patrimonio culturale di quanti si interessavano al territorio; un testo che è entrato nelle aule universitarie (soprattutto di Architettura, ma anche di Economia) prospettando punti di vista diversi, ma è soprattutto con la nascita di Urbanistica a Venezia che quei testi hanno espresso tutta la loro rilevanza. E se è nata, come spesso viene riconosciuta, una Scuola veneziana di analisi economica e sociale del territorio va riconosciuto il contributo, diretto e indiretto, dato da Bernardo ai suoi presupposti.
Come è noto il settore edilizio ha costituito un altro oggetto di approfondite analisi da parte sua. Il saggio pubblicato nello Lo spreco edilizio (edito dalla Marsilio) costituisce non solo un contributo di grande rilievo per la comprensione dell’andamento e le contraddizioni del settore edilizio nel contesto della dinamica economica complessiva, ma anche un ottimo esempio delle sue modalità di ricerca. Nelle successive edizioni dello Lo spreco edilizio la pubblicazione di un mio saggio sull’accumulazione nel settore edilizio è stato occasione di una divergenza, più per reciproca incomprensione che per il manifestarsi di reali punti di vista diversi. Abbiamo avuto un certo ritegno nel confrontarci apertamente. Ma oggi chi si occupa più del settore edilizio? A fronte di uno sperpero del patrimonio pubblico la ripresa dell’analisi del settore, nel contesto della dinamica economica, sarebbe assolutamente necessaria e Bernardo aveva ripreso la riflessione sul settore non più con attenzione ai processi di accumulazione bensì ai processi sociali, alle crescenti diseguaglianze e alle conseguenti trasformazioni urbane, come testimonia il suo ultimo testo La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza).
Caro Francesco per lo spazio concessomi non posso andare oltre questi pochi e, sicuramente, non adeguati richiami, ma come ho detto ci sarà tempo per riflessioni più approfondite. Ancora grazie e saluti.
Francesco Indovina


Bernardo Secchi è stato, innanzi tutto, un interprete lucido della contemporaneità. Dotato di grande curiosità e determinazione ha spinto svariate generazioni di studenti ad immergersi nel territorio attraverso una dimensione, definita da lui stesso “corporale”. Ciò allo scopo di studiare le trasformazioni in atto nel mondo occidentale, che agli inizi degli anni ottanta furono più volte racchiuse, proprio a causa delle loro ricadute spaziali, entro il termine coprente di “caos”.
La sua convinzione nel guidare numerosi studiosi di differenti discipline a guardare il territorio “dal vero” ha, in qualche modo, contribuito ad estendere e rafforzare l’esigenza, per il progetto, di costruirsi sempre un “contesto” . Un’esigenza espressa anche da Vittorio Gregotti negli anni ottanta. Per molti, non soltanto della mia generazione, gli anni ottanta allo IUAV sono stati determinanti, proprio grazie a quel binomio Secchi-Gregotti che dalle pagine di Casabella (e viceversa) si spostava nelle aule dell’Università di architettura di Venezia. Non avevamo che l’imbarazzo della scelta per apprendere, approfondire, studiare ciò che echeggiava in tutt’Europa: il ruolo, da un lato di un rinnovato interesse per i caratteri fisici della città, in quanto visibile ricaduta di altri aspetti meno tangibili dei processi e delle trasformazioni in atto; dall’altro il ruolo fondamentale del progetto urbanistico per governare la città contemporanea. A partire da questi anni di importante fermento culturale per il nostro paese, e quelli successivi di studio e di esperienze di ricerca nazionali ed internazionali, è nata grazie al lavoro instancabile di Bernardo Secchi, una genìa di urbanisti e studiosi della città che sparsi in tutt’Europa continuano un lavoro attento sul territorio. Giovedì, 18 settembre molti di questi studiosi e tecnici si sono ritrovati per dare un sobrio addio al professore Bernardo Secchi sicuri che la sua Lezione di Urbanistica, nonostante i correnti tempi “confusi” non sia stata vana. Anzi che di temi e di motivi per continuare a svolgere un lavoro serio sulla città contemporanea, senza moralismi vecchi e nuovi, ce ne siano tanti. Molti ancora, importantissimi, sono indicati negli ultimi scritti, nelle ultime conferenze, nelle ultime lezioni, dove Bernardo Secchi, anche a seguito delle ultime esperienze professionali e di ricerca condotte su numerose grandi città di tutto il mondo ha ritenuto utile, ancora una volta, spingere gli studiosi del territorio, in quanto tali, a responsabilizzarsi riguardo ai fenomeni della disuguaglianza sociale e del rischio ambientale.
Ancora grazie professore
Sabina Lenoci


Conoscevo e apprezzavo Secchi sin dagli anni settanta, quando era Preside della Facoltà di Architettura di Milano dove stavo iniziando la mia carriera universitaria. Il mio apprezzamento è poi cresciuto quando, nel decennio successivo, la sua presenza costante su Casabella e la sua direzione di Urbanistica rappresentarono un punto di riferimento fondamentale per la crescita della cultura urbanistica italiana. Un apprezzamento che si è ulteriormente consolidato, quando nello stesso periodo ho avuto la fortuna di conoscere direttamente la sua attività professionale di urbanista, quando questa si è incrociata con la mia. In quegli anni, infatti, insieme a Campos Venuti lavoravo al nuovo Prg di Ancona, una città molto vicina a Jesi dove Secchi era impegnato nella redazione di quello che, credo, fosse suo primo Prg; un piano al quale in breve tempo ne seguirono altri tra Marche e Toscana (Civitanova, Pesaro, Siena e Prato). Il confronto tra le due esperienze, Ancona e Jesi, fu quindi naturale, anche perché Campos e Secchi si conoscevano bene non solo perché colleghi nella stessa Facoltà, ma per aver lavorato insieme al piano di Madrid, un’esperienza da poco conclusa, importante per entrambi e assai avanzata culturalmente (Recuperar Madrid!).
Il confronto avvenne sul modello di piano in costruzione nelle due città, con un seminario chiuso che si tenne a Bologna nella sede dell’Inu, non aperto quindi alla discussione pubblica ma riservato ai due gruppi di lavoro impegnati nei due piani, quello di Secchi più organizzato e quasi una “scuola”, più naif e non solo di estrazione universitaria quello di Campos. Per me fu tuttavia una giornata assai importante, perché al di là delle posizioni di partenza assai diverse, il modello di piano che emergeva dalle due esperienze, così diverso da quello dei tradizionali Prg, presentava larghe coincidenze e una stessa definizione sostanziale delle politiche da perseguire per le città. Secchi, probabilmente, non avrebbe accettato di essere classificato nella “terza generazione dell’urbanistica” ma come Campos aveva in mente un piano che si occupasse della riqualificazione diffusa dei tessuti urbani e insieme della qualità urbanistica delle nuove trasformazioni, quasi tutte relative ad aree già costruite da recuperare o degradate da riqualificare, non più quindi di espansione. E se nel caso di Ancona il primo obiettivo era perseguito attraverso un nuovo zoning che superava quello funzionale, a Jesi lo stesso obiettivo era affidato al “progetto di suolo”; mentre per il secondo obiettivo, entrambi i piani si affidavano a schemi progettuali più o meno prescrittivi che oggi definiremmo “strutturali”, diversi in apparenza ma molto simili nella sostanza. Entrambi i piani non solo esprimevano una valutazione coincidente per le scelte da sviluppare, ma utilizzavano anche strumenti molto simili, che sarebbero diventati pratica corrente per l’urbanistica italiana degli anni successivi.
Non posso, infine, non sottolineare la dimensione culturale, profonda e originale, con la quale Secchi accompagnava la propria concreta attività di urbanista, un approccio davvero irripetibile. Qualche anno dopo quel seminario, mi è capitato di occuparmi di una questione che riguardava un errore materiale presente nel Prg di Siena relativo alla classificazione di una parte di un edificio storico del quale non si era accorto nessuno, neppure la proprietà. Il Sindaco, al quale avevo fatto notare l’incongruenza in modo forse un po’ troppo diretto, mi ha subito zittito dicendoti che gli errori ci potevano anche stare, ma non sminuivano certo il valore di quel piano: “Secchi, mi disse, con il suo piano mi ha insegnato più d’ogni altro a leggere, cioè capire e interpretare la mia città, che è la cosa più importante per amministrarla”. Aveva proprio ragione.
Federico Oliva


Dopo il bombardamento di Milano nell’ottobre del 1942 i miei genitori decisero subito di sfollare a Sassello, nella vecchia casa di famiglia, e mia mamma portò con sé tutto quanto avrebbe voluto salvaguardare da una nuova più distruttiva incursione, che in effetti vi sarà.
Peccato: perché poi tutte le fotografie di famiglia rimarranno a Sassello anche dopo la fine della guerra, e molti molti anni dopo gli allora consueti ladri di mobili antichi portarono via anche quello dove erano custodite queste fotografie.
Peccato, perché tra queste scomparirà anche la fotografia della classe terza elementare nella scuola di via Ruffini, dove mio padre – alla minuta ricerca della modernità – mi aveva mandato vestito con un due pezzi, una camicia nera con i pantaloncini, mentre Bernardo vi figurava con un rigoroso grembiule a tutti corpo.
Se Bernardo fosse il primo della classe non ricordo, ma che studiasse fin da allora da preside lo ricordo benissimo, seppure poi non saprei su quali sensazioni o su quali dati di fatto questo questa impressione fosse fondata.
Dopo qualche fuggevole incontro a Milano ci saremo ritrovati quando chiameremo Bernardo – che nel frattempo aveva battuto la strada dell’economia del territorio e ad Ancona aveva diretto, su invito credo di Sylos Labini, l’Istituto di ricerche locali – a insegnare questa disciplina nel neonato corso di laurea di urbanistica a Venezia.
Ci siamo ritrovati davvero, perché per una decina d’anni eravamo spessissimo la sera ospiti nostri, lui e Anna, e noi ospiti a casa loro, un appartamento che, per ironia della sorte, avevo anni prima ristrutturato io stesso per un altro committente forse tra le mie prime prove professionali.
E di quegli anni ricordo con molta tenerezza e molta malinconia un viaggio a Parigi noi quattro con mio padre, su un curioso pulmino ristrutturato come un salotto.
Poi, verso la metà degli anni Ottanta – quando Bernardo mi sostituì dopo dieci anni alla direzione di Urbanistica – le nostre vicende sentimentali e intellettuali hanno seguito percorsi diversi, come forse il lettore sa: Bernardo, che era nato ingegnere, aveva una grande fiducia in una prasi urbanistica fondata su una conoscenza approfondita dei fenomeni socioeconomici sottostanti alle trasformazioni delle città, e dunque ai piani come uno strumento per raggiungere obiettivi valutabili in questi campi, mentre l’autore di queste note – nato in una facoltà di architettura – ha creduto che le regole di formazione delle città fossero regole soltanto estetiche e ha scritto parecchi libri per sostenerlo.
Ora, leggendo su qualche giornale un suo ritratto, ho percepito come avessimo oggi entrambi ottant’anni, e come la condizione sociale delle città sia sempre più drammatica e le città siano anche sempre più brutte.
Marco Romano


Idee e progetti, riflessioni, scritti, piani, un percorso ricco e sempre originale, tanto profondo e articolato da non poter essere adeguatamente aggettivato.
Di questo vasto patrimonio, che egli ci consegna, l’Inu è custode di un segmento specifico e prezioso, che corrisponde alle sue attività in seno al Consiglio direttivo e alla Giunta nazionale, nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, e come Direttore di Urbanistica, dal 1985 al 1990.
Anche il cambiamento di copertina della rivista, nella sua nuova eleganza, testimonia la ricerca di "problemi differenti", intorno ai fondamenti dell’urbanistica e al ruolo dell’urbanista.
Una ricerca che egli stesso ha definito una "esplorazione letteraria" di una città o di un territorio, per trovare un’interpretazione in grado di diventare "verità pubblica". L’esplorazione di un futuro possibile, ecco ciò che fa l’urbanista, nel tentativo di "dare un senso compiuto a una città o a un territorio abitato da una molteplicità di soggetti."
Quando una mente raffinata e profonda ci lascia, dobbiamo imparare a camminare in spazi e tempi diversi, a praticare un vuoto. Lì ci ritroveremo, per ripensare riflettere ristudiare rileggere, procedendo nei tanti solchi che egli ha tracciato.
Silvia Viviani

Data di pubblicazione: 15 dicembre 2014