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Per una transizione ecologica a guida urbanistica

Tra le innovazioni che hanno caratterizzato negli ultimi anni la scena internazionale, l’avvio del processo di transizione ecologica che dovrebbe consentire il passaggio dal largo impiego dei combustibili fossili ad un uso prevalente di fonti energetiche sostenibili è probabilmente destinato ad imprimere una potente accelerazione al più generale cambio del paradigma socio-economico e territoriale dominante.

Non è arrischiato supporre innanzitutto che la celerità con cui tale mutamento si sta verificando deve essere ricondotta da un lato all’impetuoso deterioramento degli equilibri ambientali, e dall’altro agli eventi caotici innescati dalla crisi pandemica. Ma al tempo stesso è possibile ipotizzare che nella lunga e faticosa ricostruzione che seguirà, l’urbanistica e la pianificazione territoriale potranno rivelarsi nuovamente indispensabili. Mettendo a disposizione della società un importante patrimonio di conoscenze e di capacità di visione accumulato nel corso del tempo, la disciplina urbanistica può offrire un importante contributo in alcuni fondamentali campi di intervento, che si estendono dalla rigenerazione urbana alla definizione di strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, dalla messa in sicurezza del territorio al miglioramento delle condizioni di accesso ai beni comuni, e dalle politiche finalizzate al miglioramento della salute, del benessere e della qualità della vita alla tutela e alla valorizzazione del paesaggio.

È bene prendere atto che lo schema di ragionamento che sto proponendo non è affatto scontato, e che anche la promozione sul campo della disciplina urbanistica da tecnica specialistica a fondamento essenziale del governo del territorio deve essere attentamente preparata. Per quanto riguarda ad esempio la probabilità di successo della proposta di decarbonizzazione a cui punta la transizione ecologica, è necessario fare in modo che tale percorso non venga contrastato da una impennata dei prezzi dell’energia (come sta avvenendo in questa fase), e che il cambiamento del modello di sviluppo non si riveli insostenibile sotto il profilo economico. Con riferimento invece alla capacità della cultura del piano di vincere la sfida della complessità dei processi che è chiamata a interpretare e a indirizzare, il superamento di un esame così impegnativo richiede una mobilitazione straordinaria di risorse cognitive e di abilità tecniche che fanno certamente già parte del bagaglio culturale e professionale dell’urbanista, ma che devono trovare in questa occasione un superiore livello di sintesi e di finalizzazione.

A ben vedere, il soddisfacimento di entrambe le condizioni che ho appena richiamato trova nello sviluppo di conoscenze appropriate e specialistiche un importante punto di partenza. Nel primo caso i nuovi saperi serviranno infatti a superare le enormi resistenze nei confronti della transizione ecologica, e a definire le conseguenze economiche e le opportunità di una road map che dovrebbe condurre il nostro Paese ad azzerare le emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050. Un percorso, quest’ultimo, che dovrà consentire all’Italia di ampliare il parco delle vetture elettriche circolanti dalle attuali 11.000 unità a una previsione di 6 milioni di esemplari nel 2030; di arrivare al 50% di edifici a emissioni zero entro il 2040; di ottenere che entro il 2045 il 50% delle abitazioni siano riscaldate da pompe di calore. Le conoscenze che dovremo acquisire per indirizzare la transizione ecologica ci consentiranno di analizzare i benefici più direttamente connessi al raggiungimento di questi traguardi, e al tempo stesso ci permetteranno di valutare le conseguenze derivanti dall’aumento, entro la fine del secolo, della temperatura media sino a 1,5 gradi (come previsto dall’accordo di Parigi) o addirittura oltre tale soglia: desertificazione di vaste aree agricole; scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare e immersione parziale delle fasce costiere; messa a repentaglio della biodiversità; esposizione delle aree urbane a ondate di calore ed alluvioni sempre più frequenti e distruttive.

Ed è ancora a partire dalla conoscenza degli effetti del climate change che il ridisegno delle aree a più alta frequentazione può prendere il via, partecipando attivamente ad una manovra integrata, che dovrebbe puntare nel lungo periodo alla messa in sicurezza dei territori e delle reti urbane nei confronti di possibili calamità, associate al riscaldamento del pianeta o al diffondersi di nuove epidemie. Gli elementi costitutivi di questo lessico urbano sotto molti aspetti inedito contemplano la valorizzazione delle opportunità offerte dalle tecnologie, e la proposizione di un nuovo paradigma sulla base del quale la città potrà sicuramente ospitare un programma ambizioso di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, che rilanciando l’adesione dell’Italia al grande progetto europeo del Green New Deal possa concorrere – come si è detto – alla decarbonizzazione del sistema produttivo, perseguendo al tempo stesso gli obiettivi dell’economia circolare e il ricorso alla rigenerazione urbana e al turismo sostenibile.

Muovendosi consapevolmente lungo la linea di contatto tra gli obiettivi della transizione ecologica e i compiti del ridisegno urbano, la disciplina urbanistica è invitata a spingersi oltre i benefici, comunque rilevanti, della rigenerazione dei manufatti edilizi – che il SuperBonus 110% è sicuramente in grado di promuovere efficacemente – per considerare in modo unitario le nostre aree urbanizzate e gli spazi naturali che le innervano e ne definiscono i contorni.

In accordo con una linea di pensiero che l’Istituto nazionale di urbanistica sta sviluppando ormai da molto tempo, appare evidente che il conseguimento di una sostanziale coerenza tra obiettivi così rilevanti e diversi debba postulare il ricorso ad una regia pubblica integrata, che proponga l’assunzione del suolo pubblico, delle reti verdi e blu, del sistema delle principali attrezzature e delle dotazioni urbanistiche come grandi infrastrutture collettive, tali da assicurare la tenuta del Paese, la fornitura e la garanzia dei diritti di cittadinanza e dei servizi, il successo delle politiche di rigenerazione urbana e territoriale.

Coerentemente con gli obiettivi della transizione ecologica le aree a più elevata naturalità rappresentano il tessuto connettivo tra l’ambiente urbano e quello rurale, e tra le diverse scale degli insediamenti di maggiore dimensione (casa, vicinato, quartiere). Esse acquistano inoltre una importanza crescente nella misura in cui il territorio extraurbano appare sempre più esposto ai rischi del dissesto, peraltro sovente amplificati dal cambiamento climatico, e mentre le agglomerazioni ad alta densità esprimono un bisogno pressante di aree verdi a cui affidare la mitigazione degli effetti più negativi della congestione urbana e delle isole di calore.

Naturalmente il pur fondamentale intervento di dettaglio nelle aree maggiormente investite dai processi di urbanizzazione non deve far ritenere che la transizione ecologica possa trovare la sua sponda ideale nelle pratiche dell’agopuntura urbana, o nelle tecniche innovative dell’ingegneria naturalistica. Oltre a postulare un contributo della pianificazione di più ampio respiro, che sappia combinare sapientemente le differenti dimensioni della transizione ecologica (quella socio-economica e ambientale), quest’ultima è destinata ad alterare equilibri territoriali ormai stratificati, in cui per la prima volta nella storia delle rivoluzioni economiche e industriali l’avvento di un nuovo modo di produzione ad elevata sostenibilità cercherà di imporre la rottamazione sistemica di interi comparti del precedente ordinamento.

Come Andrea Muratore e Mauro Indelicato hanno recentemente affermato (https://it.insideover.com/ambiente/chi-saranno-gli-sconfitti-della-transizione-ecologica.htm [https://it.insideover.com/ambiente/chi-saranno-gli-sconfitti-della-transizione-ecologica.htm]l), quello che emerge dalla lettura dei cambiamenti industriali, tecnologici ed energetici in atto – e dalla interpretazione dei nuovi paradigmi ecologici che si stanno progressivamente affermando – “è un processo in cui interi settori dovranno di fatto cessare la propria attività nei prossimi decenni, venendo sostituiti da altri aventi al centro la necessaria compenetrazione tra obiettivi economici e ambientali”. E se la fusione tra nuovi modelli ambientali e tecnologie avanzate può produrre esternalità positive in termini di crescita e di occupazione, esiste la concreta possibilità che nei territori e nei settori occupazionali che saranno ‘svuotati’ dalla transizione ecologica si creino le condizioni per sperimentare interventi mirati e nuove reti sociali in grado di contrastare le esternalità negative di una riconversione industriale e produttiva che la drastica riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili non potrà fare a meno di alimentare.

I temi della giustizia ambientale che in questo modo tendono a imporsi postulano l’esigenza di un ambientalismo pragmatico e al servizio dell’uomo, che sappia valutare le conseguenze delle politiche che verranno adottate e trovi gli strumenti più opportuni per compensare i ‘perdenti’ del nuovo ordine mondiale. Dopo aver contribuito a disegnare le nuove mappe della transizione, la pianificazione del territorio può dunque contribuire ad accompagnare i territori e le popolazioni investiti più duramente dagli effetti del cambiamento climatico e dalla dismissione delle attività produttive maggiormente impattanti verso il conseguimento di standard più evoluti di sostenibilità e di benessere diffuso.

Gli esempi di un governo del territorio che si proponga di compensare i costi economici e sociali della transizione spaziano dalla definizione di linee guida per la realizzazione di Aree produttive ecologicamente attrezzate alla riduzione delle pressioni ambientali prodotte da traffico veicolare e trasporti, alla gestione eco-efficiente delle risorse idriche e del suolo, alla valorizzazione e alla ottimizzazione dei rifiuti prodotti dalle imprese, al risarcimento dei territori penalizzati dai processi di antropizzazione con interventi di riqualificazione del paesaggio.

Conviene ribadire che le politiche pubbliche di adattamento al cambiamento climatico e di mitigazione degli effetti della transizione ecologica presuppongono una significativa e accelerata maturazione degli strumenti della pianificazione, che deve armonizzare le proposte per i territori che beneficeranno dalla affermazione del nuovo paradigma con le iniziative che al contrario dovranno sostenere le aree che risulteranno maggiormente penalizzate. Nel puntare al ricorso complementare alla lettura scientifica delle criticità più rilevanti e alla prefigurazione di interventi correttivi da affidare ai processi di rigenerazione urbana, l’Inu potrà attingere dalle elaborazioni effettuate nelgli ultimi anni dalle proprie Communities, e illustrate negli appuntamenti annuali di Urbanpromo Green, evidenziando la capacità di affiancare all’esame rigoroso dei costi imputabili alla riconversione i benefici, anche di natura economico-finanziaria, che potranno discendere dalla adozione consapevole di misure settoriali o integrate. Provvedimenti di questo tipo potranno puntare, a seconda dei casi, al contenimento del consumo di suolo, alla riduzione delle superfici impermeabili, alla estensione delle aree urbane destinate a verde pubblico, al risparmio energetico, al governo della mobilità, con una disciplina urbanistica che sarà sollecitata dallo stesso PNRR a cambiare non solo la sua agenda, ma anche la sua collocazione tra i soggetti e gli attori del processo di trasformazione che cercherà di governare.

Data di pubblicazione: 17 ottobre 2021