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La ‘città dei 15 minuti’ tra sostenibilità inconsapevole e magia dell’ordinario

L’idea della ‘città dei 15 minuti’ sta avendo uno straordinario successo. Nel congratularcene con i suoi proponenti, può essere utile cercare innanzitutto di capire come mai essa sia stata recepita con tanto entusiasmo anche nel nostro paese da accademici, think-tanks, progettisti, urbanisti, reti, amministratori e governi. Non meno importante è mettere in evidenza le sfide e aporie della sua applicazione in contesti connotati da diverse dinamiche di urbanizzazione.

Introduzione

Tra i motivi possibili del successo della ‘città dei 15 minuti’ ne illustrerei tre. Il primo è la sua provenienza dalla terra di Francia, che è sempre stata luogo di forte ispirazione per l’urbanistica italiana. La seconda è che si tratta di un concetto fortemente rassicurante e al passo con i tempi. La terza, a mio modo di vedere la più problematica, è la sua piena compatibilità con l’onnipresente dottrina neoliberista che di tutto si occupa, tranne che del profondo malessere sociale della città contemporanea.

Il contributo della città dei 15 minuti all’obiettivo, di per sé ormai quasi irraggiungibile, del contenimento degli effetti del cambiamento climatico dipenderà dai contesti applicativi. Nei paesi in cui la spinta dell’urbanizzazione è ancora significativa, tale contributo si potrebbe tradurre in esiti sostenibili, ricorrendo alla ripresa dei modelli urbanistici di ‘sostenibilità inconsapevole’, propri della stagione urbana anteriore alla motorizzazione di massa e che oggi risultano tra i più appetibili grazie all’attrattiva della loro ‘magia dell’ordinario’. Ma in paesi come il nostro, dove i margini di intervento sono dettati dalle convenienze di mercato e risultano forzatamente limitati a riconversioni dell’esistente di carattere prevalentemente minuto, le opportunità sembrano andare nella direzione di favorire lo sviluppo di servizi commerciali di prossimità.

L’impulso parigino: la ville du quart d’heure

Anche se sembra sia stato preceduto da un riformista nordamericano agli albori del secolo scorso (Clarence Perry), il merito del prepotente ingresso della città dei quindici minuti nei discorsi internazionali va tutto allo scienziato franco-colombiano Carlos Moreno, docente della Sorbona ed esperto in sistemi complessi. Instancabile divulgatore delle proprie intuizioni urbane e fin dagli inizi propugnatore della ville intelligente, Moreno ha raggiunto una grande fama internazionale cinque anni fa con la sua teoria della ville du quart d’heure. Da allora, la crescente fama dell’ideatore ha marciato di pari passo con l’aumento di popolarità dell’idea. Nonostante commenti scettici (Delalieu 2020) o chiaramente polemici (Paquot 2021), Moreno è oggi ospite immancabile di tutti gli incontri di alto livello e di grande visibilità sulle questioni della sostenibilità urbana. E la sua ville du quart d’heure, prontamente tradotta in The 15-Minute City, è ora gradito ingrediente di tutte le dichiarazioni di intenti internazionali in materia di sostenibilità urbana. Non ultimo tra i successi recenti è la sua adozione da parte della rete C40 - città unite per il clima.

Il genio di Moreno si è rivelato nel non essersi limitato alla pubblicistica accademica e divulgativa, ma nell’aver convinto Anne Hidalgo, sindaca uscente di Parigi in lizza per la rielezione nel 2020, che l’idea della ville du quart d’heure avrebbe potuto essere uno slogan elettorale di successo. A ben vedere, si trattò di un evento incoraggiante per gli urbanisti: finalmente una campagna elettorale di una grande città veniva giocata sul tema dell’organizzazione dello spazio urbano in ragione delle esigenze quotidiane dei cittadini.

Il fatto che la Hidalgo sia stata rieletta – senz’altro per meriti acquisiti in precedenza oltre che per nuove brillanti promesse – ha elevato la città dei quindici minuti a formulazione vincente. Oggi non si contano le dichiarazioni di sindaci da tutto il mondo ansiosi di emulare l’esempio di Parigi. E per una volta, Barcellona è arrivata solo seconda, sia pure con una declinazione originale del tema relativa alla creazione di isole ambientali urbane. Non è quindi sorprendente che in tempi assai recenti uno dei candidati più in vista alle prossime elezioni municipali di una grande città italiana abbia fatto suo lo slogan della città dei quindici minuti. Come a Parigi! Come a Barcellona! Un passo avanti per collocarsi nel gotha delle grandi città europee.

Un concetto rassicurante

Mai come nei tempi che viviamo abbiamo avuto più bisogno di antidoti alle nostre ansie individuali e collettive. Neppure i più privilegiati tra di noi possono sfuggire, tra le altre, alle notizie di carneficine e conflitti senza fine, all’incubo di pandemie auto-generate e di mutante resilienza, e allo sgomento di essere sull’orlo della irreversibile perdita degli equilibri ecologici del pianeta. Il sogno svanito, sia nell’est che nell’ovest del mondo, di uno Stato in grado di dare risposta ai nostri bisogni materiali e domande di sicurezza, è sostituito da piccole consolazioni e da pietose promesse. Qualcosa si farà, ci si dice: sono in arrivo grandi risorse finanziarie che ci aiuteranno a uscire dalla crisi; ci risolleveremo, e riusciremo anche a riemergere dalla voragine del debito pubblico nazionale. Abbiamo insomma un disperato bisogno di messaggi rassicuranti. Nel suo piccolo, la città dei quindici minuti è una risposta a questa esigenza. Essa evoca infatti una convivenza felice in cui tutto diventa a portata di mano. Si tratta naturalmente di una vicinanza priva di attributi qualitativi o di fattibilità operativa. Ma è la promessa stessa, proprio grazie alla sua indeterminatezza, a essere rassicurante. Poco importa che i quindici minuti a piedi siano assai diversi a seconda delle condizioni fisiche degli utenti (atleti oppure anziani e bambini), o che i trasferimenti in bicicletta siano per i più imprese pericolose. E se poi tutto dovesse anche fallire, sarà il progresso tecnologico a trarci d’impaccio. La sostituzione dei servizi di prossimità con i collegamenti on line vigorosamente incoraggiati dalla pandemia rischia infatti di farci fare un clamoroso ‘salto della quaglia’: dalla città dei quindici minuti a quella del minuto zero, in cui basterà un tocco di polpastrello o un comando vocale per fare la spesa, smaltire una pratica, riunirsi per lavoro o incontri conviviali, informarsi o istruirsi. Tutto ciò con disperazione di noi urbanisti, che rischiamo di essere ancora una volta espropriati dei valori a noi cari dello spazio materiale, organizzato e vissuto come fondamento della coesistenza civile.

Una sfida compatibile

Un ulteriore carattere della popolarità raggiunta dalla città dei quindici minuti è la sua completa compatibilità. Con questo intendo dire che la lodevole aspirazione alla collocazione di spazi e servizi utili alla portata di ogni cittadino non mette in alcun modo in discussione la totale sottomissione delle politiche urbane e dell’urbanistica all’ordine neoliberista (Garau 2012). Questa sottomissione è ormai ampiamente dimostrata dall’abbandono di ogni tentativo di affrontare con politiche pubbliche serie ed efficaci le sofferenze che caratterizzano l’esistenza di una parte significativa, e crescente, della popolazione urbana. Che l’ineguaglianza sia un fenomeno in crescita dappertutto è una realtà fuori discussione. Nel nostro paese, i suoi connotati concreti sono: le difficoltà sperimentate da numeri crescenti di cittadini meno tutelati nel conquistarsi un lavoro decente, sufficientemente sicuro e adeguatamente retribuito anche nelle aree metropolitane, in Italia le uniche attualmente in crescita economica e demografica; gli sforzi impossibili di accesso autonomo a un’abitazione dignitosa e collocata a distanza accettabile dal luogo di lavoro, quando questo lavoro esiste; l’impossibilità di godere di servizi urbani economicamente accessibili, quali l’istruzione primaria e della prima infanzia, che assumono sempre più le caratteristiche di una preziosa e costosa offerta di mercato. A una a una, le risposte strutturali a queste esigenze, quali la tutela del posto di lavoro, gli affitti calmierati e l’edilizia residenziale pubblica, sono state eliminate non solo dalla legislazione e dalle politiche nazionali, ma anche dal nostro stesso lessico. Parlare oggi di ‘equo canone’, una misura sociale giusta e utile introdotta nel nostro paese in una intensa ma ormai lontana epoca di vere riforme, susciterebbe, più che un sussulto di orrore, un sorriso di compatimento. Resiste a tutt’oggi, seppur sottoposto ai voli concentrici e ravvicinati dei rapaci delle riforme (quelle neoliberiste), il famoso Decreto 1444/1968 sugli standard urbanistici. Su questo sarà opportuno tornare, perché un approccio serio alla città dei quindici minuti non dovrebbe prescindere da un approfondimento del principio che a suo tempo ispirò il decreto stesso, e cioè (amabile coincidenza) quello di assicurare a tutti i cittadini una dotazione minima di attrezzature e spazi collettivi adeguati.

La città dei quindici minuti ha invece il pregio di non mettere in discussione alcunché, e di promettere un futuro urbano comodo e felice senza alcun sacrificio o alcun cambiamento. Nella città dei quindici minuti non dovremo rinunciare a nulla: potremo lasciare le nostre sostenibili automobili elettriche a ricaricare le loro costosissime batterie mentre ci rechiamo a piedi ad acquistare primizie nel mercatino di quartiere, scambiando parole gentili con i nostri amabili fornitori. Forse più difficili saranno i tragitti di quindici minuti per accompagnare i figli e i nipotini a scuola o per fare esami clinici. Ma i labili confini tra privato e pubblico sottesi alla formulazione della città dei quindici minuti faranno sì che il mercato trovi risposta a questa insopprimibile esigenza. La città dei quindici minuti non è quindi indifferente alla dottrina della città neoliberista, ma anzi l’asseconda. La prossimità sarà un prezioso attributo della vita urbana, a patto di potersela permettere.

Prossimità e disegno urbano

Carlos Moreno ha dichiarato che una delle principali fonti di ispirazione per la ville du quart d’heure è stata Jane Jacobs. Jacobs è un’altra figura tornata prepotentemente di moda nei tempi recenti. Non era così, almeno nel nostro paese, una quindicina di anni fa, quando parve assai utile a chi scrive introdurre le teorie di questa sconosciuta nel Corso di politiche urbane all’allora Dipartimento di pianificazione territoriale e urbanistica della Sapienza, facendo di Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane il principale testo di riferimento del corso stesso (Jacobs 1961).

In realtà l’enfasi di Jacobs non fu mai rivolta esplicitamente al principio utilitaristico dei servizi di prossimità. La sua vis polemica aveva invece per oggetto la cecità dei planners del suo tempo (dai modesti tecnici delle amministrazioni locali, all’onnipotente Robert Moses), dediti alla distruzione di tutti i tessuti urbani non rispondenti ai principi di nitore urbanistico e di sudditanza alla circolazione motorizzata, che ispiravano l’urbanistica di quegli anni. Jacobs argomentò con successo che i quartieri più vitali e sicuri di Boston e di New York erano quelli costruiti a cavallo del XIX e del XX secolo, abitati da popolazioni di basso reddito, governati da un forte senso comunitario e dalla incrollabile fede nella upward mobility. È un peccato che molta minore enfasi sia stata dedicata dalla stessa Jacobs agli obiettivi ultimi dell’urban renewal, e cioè al desiderio di espellere gli abitanti più poveri e spesso del colore sbagliato dalle zone centrali delle città, lucrando dalla demolizione e ricostruzione dei loro quartieri.

Una contraddizione interessante del pensiero di Jane Jacobs è l’avere ignorato che anche i quartieri da lei presi a modello, e segnatamente il suo village della Lower Manhattan, erano stati progettati da planners. Non si trattava certo di esempi geniali. Ma l’epoca della loro progettazione e realizzazione, precedente alla diffusione dell’automobile e della mobilità verticale, aveva fatto sì che l’ordito banalmente ortogonale consistesse di lotti relativamente piccoli, serviti da una maglia fitta di strade non particolarmente ampie, completata da edifici che raramente superavano i quattro piani. In contesti urbanistici così misurati, tutto era ‘prossimo’. Per di più, le esigenze di una popolazione dedita alla spesa al minuto, in tempi in cui la refrigerazione dei cibi era ancora poco diffusa, facevano sì che i piani terra fossero destinati in gran parte a negozi di prima necessità. Il traffico limitato consentiva ai bambini tornati da scuola di passare i loro pomeriggi a giocare in strada con i compagni; una condizione non ideale, ma che permetteva alle madri di sorvegliarli, con la collaborazione degli stessi negozianti che conoscevano vita, morte e miracoli di ogni famiglia del quartiere. È quest’ultimo aspetto che aveva colpito maggiormente Jacobs, e su di esso sarebbe ritornata più volte nella sua battaglia a favore dei quartieri consolidati di prima generazione. Rimase famoso il suo tono di scherno nei confronti dei lussuosi palazzi nuovaiorchesi della Park Avenue, costosissimi ed esclusivi e al contempo privi di vitalità urbana.

L’urbanistica posteriore alla seconda guerra mondiale, che prese le mosse da quegli Stati Uniti emersi dal conflitto come il più prospero e propulsivo paese del mondo, doveva imboccare tutt’altre direzioni. La diffusione capillare dell’automobile, facilitata dall’efficienza produttiva fordista e dai bassissimi costi del carburante, consentì a tutti i cittadini statunitensi – con eccezione delle classi più povere – di uscire dalla città e di realizzare il sogno della residenza individuale con giardino. Il modello poté essere ripetuto fino a distanze considerevoli dai principali centri urbani, anche grazie a efficienti collegamenti ferroviari. Si spezzava così il meccanismo del quartiere, in cui la relativa povertà di comfort della residenza plurifamiliare veniva compensata dai vantaggi della prossimità e da una convivenza sociale varia e ricca. Oggi, naturalmente, questo grande patrimonio urbano è stato riscoperto dalle classi abbienti di quel paese – e non solo di quello – attraverso il noto fenomeno della gentrificazione.

Le stesse limitazioni tecnologiche alla base della New York amata da Jane Jacobs orientarono i criteri di espansione urbana in Europa, sempre a cavallo del XIX e del XX secolo. Con le debite differenze, anche nelle nostre città e nei quartieri di nuova realizzazione si attuarono condizioni abitative simili. Sia i quartieri di iniziativa privata destinati alle nascenti classi medie che quelli di iniziativa pubblica erano infatti immaginati per servire abitanti dipendenti in gran parte dai trasporti pubblici, e furono quindi costruiti con criteri urbanistici di densità e compattezza e dotati di tutti i servizi essenziali, ivi compresi gli esercizi commerciali di vicinato. Anche qui, il meccanismo si ruppe fin dalla prima metà del XX secolo, dando luogo però a espansioni ancora più povere dei sobborghi nordamericani, caratterizzate dall’edificazione di nuovi quartieri intensivi periferici basati su altissimi indici fondiari, male serviti e con infrastrutture inadeguate. Fino a oggi, esempi validi alternativi se ne sono visti pochi. Le attenzioni degli osservatori dell’evoluzione urbana si sono soffermate su fenomeni successivi altrettanto poco lusinghieri, come l’abusivismo generalizzato e la dispersione edilizia delle slabbrature urbane, queste ultime povere scimmiottature della mono-residenzialità immersa nel verde dei sobborghi nordamericani.

Potenzialità nei paesi di nuova urbanizzazione

Parlare di città dei quindici minuti in queste condizioni rischia di apparire, nella migliore delle ipotesi, un proposito di difficile realizzazione, soprattutto in mancanza di politiche serie e decise. Ma nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, segnatamente in Africa e in Asia dove la crescita urbana è assai pronunciata, esiste ancora la possibilità di soddisfare la domanda consistente di nuove espansioni adottando schemi sostenibili basati sulla compattezza edilizia e su una rilevante dotazione di servizi di prossimità.

Per fare questo, rifarsi agli esempi sopracitati dei nuovi quartieri europei e nordamericani realizzati a cavallo del XIX e XX secolo può offrire utili spunti. A differenza dei sobborghi nordamericani del dopoguerra e delle più recenti derivazioni caricaturali delle ‘comunità recintate’, si trattava di insediamenti di alta compattezza e densità edilizia, pur dettati da criteri di massimo sfruttamento del terreno edificabile. La maggiore convenienza dei sistemi edilizi tradizionali in pietra e laterizio imponevano tuttavia altezze relativamente limitate. Per di più, i regolamenti edilizi stabilivano l’accesso a luce e aereazione naturali per tutti gli ambienti, suggerendo così soluzioni ‘a corte’ in grado di garantire sia l’affaccio sulle vie stradali, sia l’uso degli spazi condominiali interni per il verde e il gioco. Criteri di praticità dettavano infine l’abbandono delle pretese dei quartieri signorili impostati sul modello di ville e villini, suggerendo invece l’utilizzo di una quota consistente dei piani terra per negozi e altri servizi. Il tutto veniva completato da interventi di ottimo impatto estetico e commerciale: virtuosi monumenti e leggiadre fontane nelle piazze, giardini di quartiere e viali alberati. Va aggiunto che la prossimità era il risultato, e non il principio ispiratore, di queste soluzioni urbanistiche. La densità di attrezzature che le caratterizzava derivava dalla già richiamata difficoltà nel raggiungere quotidianamente altre destinazioni commerciali affidandosi quasi esclusivamente al trasporto pubblico.

Si trattava insomma di quartieri di notevole gradevolezza e alta sostenibilità, sebbene si trattasse, per ovvi motivi, di una ‘sostenibilità inconsapevole’. Non è quindi sorprendente che siano i quartieri prodotti in quell’epoca, ivi compresi quelli di edilizia economica e popolare, a essere oggi particolarmente ambiti. Un elemento che si aggiunge alla loro appetibilità è una qualità che si può descrivere come ‘magia dell’ordinario’; e cioè una gradevolezza dovuta alla ‘scala umana’ sia dell’edilizia sia degli spazi e degli orditi viari (Fig. 1), quasi sempre nella completa assenza di emergenze estetiche ed architettoniche. Nulla vieta quindi di riscoprire oggi tali principi, come modello alternativo ai canoni di gigantismo edilizio e di iper-dipendenza energetica propri delle espansioni edilizie a cui stiamo assistendo in gran parte del resto del mondo, in particolare nel continente asiatico.

Fig. 1. Sostenibilità inconsapevole e magia dell'ordinario: varietà di percorsi in un quartiere romano del primo '900 (fonte: elaborazione dell'autore).
Fig. 1. Sostenibilità inconsapevole e magia dell’ordinario: varietà di percorsi in un quartiere romano del primo ’900 (fonte: elaborazione dell’autore).

Anche i progettisti e gli urbanisti italiani, così pronti ad associarsi a questi ultimi tipi di soluzioni, farebbero bene a diventare portatori della saggezza urbanistica dei nostri nonni e bisnonni, progettisti sostenibili ante litteram. Forse una spinta arriverà dai più giovani, auspicabilmente capaci di cogliere quattro dimensioni poetiche dell’urbano: oltre alla magia dell’ordinario (Fig. 1), il miracolo della convivenza (Fig. 2), la città come macchina meravigliosa (Fig. 3), e come speranza ecologica (Fig. 5) (Garau e Sepe 2021).

Fig. 2. Il miracolo della convivenza: mascherine a spasso ai tempi del Covid (foto di Pietro Garau).
Fig. 2. Il miracolo della convivenza: mascherine a spasso ai tempi del Covid (foto di Pietro Garau).
Fig. 3. La città come macchina meravigliosa: la ricerca faticosa di spazio per le biciclette. Roma, via Gregorio VII (foto di Pietro Garau).
Fig. 3. La città come macchina meravigliosa: la ricerca faticosa di spazio per le biciclette. Roma, via Gregorio VII (foto di Pietro Garau).
Fig. 5. La città come speranza ecologica: arcobaleno su verde urbano sottratto all'edificazione (foto di Pietro Garau).
Fig. 5. La città come speranza ecologica: arcobaleno su verde urbano sottratto all’edificazione (foto di Pietro Garau).

Indirizzi possibili nei paesi di urbanizzazione matura

Nelle situazioni di urbanesimo consolidato e di scarsa ispirazione progettuale, che contraddistinguono il nostro paese come quelli di urbanizzazione matura, non paiono possibili esempi su vasta scala di modelli di espansione edilizia sostenibile. Non sembra quindi che l’esempio perduto dei quartieri delle prime cinture urbane, realizzati ormai un secolo fa, possa essere riproposto in maniera consistente. Risultano anche problematiche le prospettive di dotazioni di nuovi spazi verdi dove servono, ora che le politiche della permutazione consentono il più delle volte atterraggi volumetrici improbabili; che l’esproprio a fini di pubblica utilità è ormai relegato nella galleria degli orrori; e che molte amministrazioni di importanti città non riescono neppure a garantire una decente manutenzione dello spazio pubblico urbano esistente (Fig. 4).

Fig. 4. Cura dello spazio pubblico in una grande città: le foreste urbane che non vorremmo (foto di Pietro Garau).
Fig. 4. Cura dello spazio pubblico in una grande città: le foreste urbane che non vorremmo (foto di Pietro Garau).

Naturalmente, la città dei quindici minuti è già sostanzialmente realizzata nei quartieri privilegiati, almeno per quanto riguarda l’offerta commerciale e l’amenità dei percorsi pedonali e ciclistici, e segnatamente nei centri storici e nelle zone che devono essere gestite secondo criteri di minima decenza, soprattutto in funzione della fruizione turistica. Si apre così una dimensione ‘di classe’ della città dei quindici minuti, che dovrebbe esser garantita in primis dove la sua attuazione è più difficile, nelle periferie. Ma qui entrano in gioco fattori ben più pesanti delle promesse di uno slogan di successo, quali gli investimenti necessari per servizi e attrezzature collettive pubbliche che da tempo attendono di essere realizzati.

Sembra quindi più promettente, e anche di realizzazione assai più rapida, una politica di ‘prossimizzazione’ delle periferie urbane. Il fattore decisivo per la vitalità, la vivibilità e la sicurezza urbane (Jacobs docet) è la presenza diffusa di esercizi commerciali a di attività artigianali di ogni tipo, dall’approvvigionamento alimentare ai servizi più disparati. Ma le attività economiche di prossimità sono sempre più minacciate, oltre che da una fiscalità poco amica e dall’esosità dei locatori, da tre concorrenti sleali: gli acquisti online, la grande distribuzione, e la cultura dello spreco.

Occorrerebbe in questo caso fornire incentivi consistenti al commercio di prossimità, e disincentivi alla grande distribuzione. Ma si tratta di scelte, ed è proprio qui che rischia di cascare l’asino. La sostenibilità non è possibile soddisfacendo tutti i tipi di interessi economici. E finché non ci si convincerà di questo tutte le belle aspirazioni, compresa la città dei quindici minuti, rimarranno solo desideri.

Riferimenti

Delaleu A. (2020), “La Ville du quart d’heure: utopie? fantasme? écran de Fumée?”, Chroniques d’Architecture, 25 Août [https://chroniques-architecture.com/la [https://chroniques-architecture.com/la-ville-du-quart-dheure-ecran-de-fumee]-ville-du-quart-dheure-ecran-de-fumee].

Garau P. (2012), “La ville unique”, in L.N. Tellier, C. Vainer (dir.), Métropoles des Amériques en mutation, Presses de l’Université de Québec, Montreal, p. 265-280.

Garau P., Sepe M. (2021) “A scuola di città”, in F.D. Moccia, M. Sepe (a cura di), Benessere e salute delle città contemporanee, INU edizioni, Roma, p. 289-302.

Jacobs J. (1961), The Death and Life of Great American Cities, Rondom house, New York (trad. it. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, edizioni di Comunità, 2000).

Paquot T. (2021), “La ville du quart d’heure”, ESPRIT, Avril [https://esprit.presse.fr/article/thierry [https://esprit.presse.fr/article/thierry- paquot/la-ville-du-quart-d-heure-43275]- paquot/la-ville-du-quart-d-heure-43275].

Data di pubblicazione: 16 aprile 2023