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Il rapporto Stato-Regioni dopo la pandemia

Tra le conseguenze drammatiche e imprevedibili che la pandemia sta producendo a livello planetario nell’economia, nella società e nella stessa organizzazione delle città, sembrano emergere alcuni cambiamenti che riguardano più da vicino il nostro Paese e che potranno rivelarsi decisivi per il successo delle politiche che stanno per essere finanziate con il Recovery Plan.

Se fino agli ultimi mesi del 2019 il nostro ordinamento era ancora al centro di un disegno di regionalismo differenziato che puntava ad assegnare alle Regioni una maggiore autonomia, a un anno di distanza lo scenario politico appare in rapido mutamento, e il banco di prova costituito dalla gestione della crisi sanitaria sembra suggerire un differente atteggiamento. Laddove infatti le misure impiegate per il contenimento dell’epidemia hanno visto molte Regioni rinunciare ad esercitare pienamente i propri poteri, aspettando che fosse lo Stato a mettere in atto provvedimenti limitativi delle libertà individuali e di impresa che si preannunciavano molto impopolari, i 222 miliardi che l’Italia si appresta a spendere nel prossimo quinquennio determineranno una spinta di segno opposto, e innescherà un probabile conflitto in relazione alla divisione dei poteri e alla dislocazione dei centri di spesa.

Le ripercussioni per le politiche pubbliche e per il nostro assetto amministrativo possono essere rilevanti. Dopo aver assistito per molto tempo al progressivo indebolimento delle strutture tecnico-amministrative dello Stato – nelle competenze assegnate e nelle risorse umane disponibili – come conseguenza di una graduale rinuncia del settore pubblico ad esercitare un forte ruolo di indirizzo, si può infatti prevedere che la complessità dei progetti che dovranno essere messi in cantiere soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture, la digitalizzazione della pubblica amministrazione, l’economia circolare e la “rivoluzione verde”, richiederà un risoluto cambio di rotta.

Naturalmente la consapevolezza del fallimento del modello dello Stato minimo avrebbe dovuto farsi strada molto tempo prima, almeno a partire dalla grande recessione iniziata nel 2007, che aveva messo a nudo la preoccupante miopia delle stesse istituzioni di regolazione del mercato, ma ora i prevedibili effetti della pandemia ci costringono a prendere atto che le privatizzazioni e le esternalizzazioni avvenute nei decenni precedenti hanno notevolmente indebolito gli strumenti a disposizione della governance per rispondere alle crisi .

A fronte della marcata accelerazione dei processi attuativi che dovrà essere assicurata, del carattere sperimentale di alcuni interventi prioritari e della scala sovraregionale che converrà impiegare in particolare per alcune grandi opere infrastrutturali, è dunque molto probabile un nuovo cambio degli equilibri tra settore pubblico e privato, e tra centro e periferia tanto nella programmazione, quanto nella progettazione delle misure più significative che caratterizzeranno la ricostruzione del Paese dopo la fine dell’emergenza sanitaria.

Soprattutto nel caso del governo del territorio, la necessità di innovare la materia che regola l’esercizio delle competenze concorrenti tra lo Stato e le Regioni potrebbe far pensare ad una intensa e complessa negoziazione, se non addirittura ad una riforma complessiva del Titolo V della Costituzione, ma l’emergenza economica e sociale in cui dovremo operare nei prossimi anni, e la necessità di rispettare i vincoli temporali imposti da Bruxelles per l’impiego delle risorse straordinarie del Next Generation EU, ci spinge ad evitare il rischio di una ulteriore dilatazione dei tempi necessari alla realizzazione degli interventi programmati.

In attesa di procedere alla ridefinizione, comunque necessaria, dei rapporti inter-istituzionali che dovranno presiedere alle decisioni in materia di pianificazione, conviene pertanto ipotizzare misure di breve-medio periodo quali l’istituzione di una o più unità di missione con il compito di avviare i progetti di rilievo strategico, o la costituzione di gruppi di lavoro ai quali affidare la promozione di interventi a carattere sperimentale come nel campo della rigenerazione urbana. Al fine di conseguire risultati apprezzabili in questa direzione, è comunque necessario restituire alle strutture apicali dell’amministrazione dello Stato – a partire dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – un ruolo che vada ben oltre la responsabilità di effettuare il “salvataggio” delle aree di crisi (l’Ilva di Taranto o l’Alitalia, solo per fare due esempi), ma che cerchi di ricostruire la capacità resiliente delle istituzioni di governo di adattarsi e di imparare dalla gestione delle emergenze.

Grazie ad un approccio siffatto, rivolto cioè ad affidare la credibilità delle istituzioni alle capacità e alle competenze dell’apparato pubblico, è possibile auspicare che il ricorso alle risorse straordinarie messe in gioco dal Recovery Fund non si limiti a rispondere a una domanda pressante di ricostruzione dei settori più duramente colpiti dalla pandemia, ma cerchi piuttosto di contribuire alla transizione verso un differente modello di sviluppo, che costituisce probabilmente la sfida più importante che oggi ci viene prospettata. Nel nome di una sostenibile utopia, si tratta infatti di modificare i parametri che utilizziamo abitualmente per misurare il successo delle politiche pubbliche, affiancando alle misurazioni quantitative (come nel caso del PIL) indicatori di benessere individuale e collettivo che ci consentano “di evidenziare meglio i tradeoff da cui dipende il nostro futuro”, ad esempio confrontando i costi sanitari associati all’inquinamento con gli investimenti per la decarbonizzazione delle attività economiche, o gli interventi finalizzati alla riduzione del rischio idrogeologico con le misure assunte allo scopo di compensare i danni prodotti dai disastri naturali.

Purtroppo i segnali che è possibile ricavare dall’analisi del dibattito in corso non sono rassicuranti. La discussione sulle linee di indirizzo del piano degli interventi che verranno finanziati con i prestiti e le sovvenzioni previsti dall’Unione Europea fatica infatti a prendere quota e a coinvolgere l’opinione pubblica, che è sempre più preoccupata che questa straordinaria occasione per aggiornare e rendere competitivo il nostro Paese venga dissipata. Ma soprattutto i frequenti conflitti tra il governo nazionale e quelli regionali sulle misure da adottare per contrastare l’epidemia fanno nascere il sospetto che la pubblica amministrazione non disponga dell’efficienza necessaria ad assicurare una sollecita attuazione degli interventi programmati.

Per quanto attiene più in particolare alle misure che riguarderanno più da vicino il governo del territorio, le linee di indirizzo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza “Next Generation Italia” che dovrebbero essere approvate a metà gennaio 2021 non sembrano prestare una particolare attenzione alla necessità di provvedere finalmente alla elaborazione di un’agenda urbana nazionale. Inoltre l’approvazione a fine 2020 dello schema di un Dpr sulla riorganizzazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti lascia presagire la volontà di ridurne ulteriormente le competenze, e di trattare gli argomenti urbanistici solo in modo indiretto, subordinandoli cioè alle questioni concernenti le opere pubbliche e le infrastrutture.

Naturalmente la marginalizzazione della questione urbana non costituisce una conseguenza inevitabile degli orientamenti finora prevalenti, e mutamenti significativi sono ancora possibili. Questo almeno è quanto cercheremo di sostenere nei prossimi mesi, promuovendo specifiche iniziative e proposte, e garantendo la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica a un dibattito pubblico che si preannuncia molto intenso.

Data di pubblicazione: 3 febbraio 2021