“Drone”: termine breve, d’impatto, con una storia che intreccia natura, tecnologia e suono eppure semanticamente fuorviante. Deriva dall’inglese antico dran o dræn, che indicava il fuco, cioè il maschio dell’ape. Un termine imitativo, ovvero che richiama il ronzio prodotto dagli insetti, da cui anche il significato musicale di suono continuo.
Nella letteratura tecnica internazionale si preferisce parlare di Unmanned Aerial Vehicle (UAV) o, con maggiore accuratezza, di Unmanned Aerial System (UAS), a sottolineare come l’aeromobile sia solo una componente di una più complessa infrastruttura tecnologica che include sensori, software, operatori e reti di comunicazione. L’uso del vocabolo “drone” rischia invece di evocare l’oggetto volante in sé, riducendolo a feticcio mediatico e oscurandone la natura strumentale. È quindi opportuno ribadire che il drone non rimanda tanto ad un campo disciplinare autonomo, quanto piuttosto ad una piattaforma per l’acquisizione di dati, che va ricondotta a un corretto inquadramento epistemico.
Più che aver aperto un nuovo paradigma, i droni hanno reso la raccolta di dati territoriali più semplice, economica e diffusa. Non solo in geomatica, ma anche in ecologia, archeologia o ingegneria ambientale, queste piattaforme consentono di osservare fenomeni con rapidità e a scale prima impensabili. In urbanistica e pianificazione la loro utilità è immediata: permettono di monitorare il consumo di suolo, valutare impatti ambientali, seguire le trasformazioni urbane e persino coinvolgere i cittadini con rappresentazioni visive intuitive. Le flotte di UAV non sostituiscono i satelliti o le riprese aeree tradizionali, ma le completano, offrendo un controllo ravvicinato e frequente.
Nella città contemporanea il drone è insieme occhio e orecchio. Misura, registra, restituisce immagini dall’alto, rendendo visibile ciò che è invisibile a terra. Strumento di conoscenza, promette efficienza, rapidità, precisione. Ma ogni promessa tecnica porta con sé un rischio: che la tecnocrazia della misura prenda il sopravvento, trasformando la pianificazione in un esercizio di controllo più che di progetto. Resta però chiaro che la tecnologia è solo uno strumento: prezioso per rafforzare la diagnosi, ma mai in grado di rimpiazzare l’interpretazione critica e le decisioni politiche che orientano il progetto urbano.
I limiti emergono con altrettanta evidenza: nessun sensore, per quanto sofisticato, è in grado di restituire da solo il significato profondo dei processi territoriali. Scambiare lo strumento per il fine significa ridurre la complessità del vivere urbano e ambientale a una sequenza di dati, trasformando la conoscenza in pura tecnocrazia della misura. La vera sfida, invece, sta nel costruire sistemi capaci di dialogare tra loro, mettendo in relazione prospettive, scale e domini diversi: non più una sola visione parziale, ma un mosaico di sguardi che restituisce la densità ecologica, sociale e culturale dei territori. È in questa integrazione che si intravede il potenziale più alto: non la rincorsa all’ennesima innovazione tecnica, ma la capacità di tenere insieme strumenti eterogenei, saperi differenti e domande di senso, affinché la tecnologia diventi davvero un veicolo di interpretazione e non un alibi per semplificare l’intricato tessuto della realtà.
Non si può eludere la questione etica. Se il drone offre possibilità straordinarie – dal monitoraggio ambientale ai rilievi rapidi post-calamità, alla partecipazione dal basso tramite esperienze di citizen science – al tempo stesso ripropone nodi cruciali: la militarizzazione della tecnologia, la sorveglianza negli spazi pubblici, l’invasione della privacy. L’impiego bellico dei droni, ormai quotidiano nei teatri di guerra contemporanei, rivela con crudezza la duplice natura di queste tecnologie: strumenti di conoscenza e al tempo stesso dispositivi di sorveglianza, controllo, attacco e distruzione. È un’ambivalenza che ci riguarda da vicino, perché tocca il cuore stesso del progetto urbano e territoriale: come conciliare la potenza di macchine nate in ambiti militari con l’urgenza di costruire città giuste, sostenibili, inclusive? La contraddizione è qui, davanti a noi, nel presente: gli stessi sistemi che sorvolano frane e alluvioni per proteggerci, possono essere riconvertiti in armi di precisione, spostando il loro sguardo dal territorio ferito al bersaglio strategico.
Per questo non ha senso celebrare il “drone” come oggetto iconico né demonizzarlo come minaccia assoluta. La sfida è riconoscerlo per ciò che è: una piattaforma tecnica, potente e ambivalente, che chiede di essere inscritta dentro un orizzonte di senso più ampio. In ultima analisi, non saranno i droni a decidere del nostro futuro, ma il modo in cui sapremo orientarne l’uso.
Per l’urbanistica e la pianificazione – e più in generale per chi esercita responsabilità collettive e di governo – la sfida sta proprio qui: nel saper trasformare un dispositivo ambiguo in uno strumento di emancipazione, scegliendo consapevolmente se il loro incessante ronzio accompagnerà la distruzione o la cura dei nostri territori.
In questa prospettiva il drone diventa banco di prova per una cultura della tecnologia capace di assumersi responsabilità sociali. Non basta interrogarsi su ciò che un UAV può misurare: occorre chiedersi quali usi collettivi può generare, quali narrazioni può alimentare e quali immaginari può aprire. Solo così il suo ronzio smetterà di essere un non meglio identificato rumore e diventerà parte di una partitura condivisa, orientata a coltivare giustizia, equità e resilienza territoriale.