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Cultura come motore di rinnovamento urbano. Non più una questione di spazi ma di tempi

In principio fu Bilbao, ma forse dovremmo dire Atene? Fin dalla nascita del teatro e dal suo ruolo pubblico, nel V secolo a.C., la cultura ha avuto un ruolo fondamentale nell’immaginare gli spazi urbani. Insieme alle biblioteche e ai templi votivi, insieme alle terme e poi agli ospedali, c’è sempre stata nelle città occidentali la consapevolezza che degli spazi specifici dovevano essere costruiti per fare posto alla cultura. Biblioteche e teatri tengono insieme i due grandi elementi: archivio e performance; luogo in cui studiare e spazio in cui rendere visibile le proprie capacità, musicali e coreutiche, oltre che drammaturgiche. A poco a poco, oltre ad occupare degli spazi si sono decisi anche dei tempi: di giorno studiare (non oserò dire leggere, che non viene vissuta come attività, e quasi nemmeno come passatempo, ma come una specie di mania per pochi) e di sera divertirsi. Cosi la specificità degli luoghi si è ulteriormente raffinata: quartieri in cui andare quasi solo la sera, a teatro o al cinema (si pensi Londra o New York), veri e propri concentrati assoluti dove spendere il proprio tempo libero.

Il Novecento, a poco a poco, ha esaltato queste funzioni; i luoghi di sapere ed apprendimento sono stati affiancati oltre che dalle scuole tradizionali da uno sviluppo eccezionale del settore universitario; le aree pregiate delle città sono state occupate per lo più da questi tipi di contenitori, e a biblioteche e teatri si sono sommati i musei, prima collezioni di piccoli e medie dimensioni, poi veri e propri apparati di apprendimenti parallelo e integrato agli spazi canonici del sapere. Dai grandi esempi del Louvre a Parigi, degli Uffizi a Firenze, dell’Accademia a Venezia, hanno tratto spunto grandi aree urbane dedicate, che magari avevano già dei nuclei costituiti da funzioni culturali ma che non era stati volontariamente valorizzati come motore di attrattività.

Man mano che il Novecento, questo secolo lunghissimo che sembra non abbandonarci mai, ha preso piede, e richiedendo le due guerre mondiali uno straordinario sforzo di ricostruzione innanzitutto delle fabbriche, le città si sono allungate, allargate, in parte densificate in parte connesse tra di loro sia per terra che per mare. In Occidente, e specie in Europa tra il 1950 e il 1980, quando la popolazione cresce di una crescita che parrebbe essere infinita, e che assolutamente infinita non è, si attribuiscono alle città ruoli fortemente produttivi, facendole diventare capoluogo di distrettualità in cui protagonista è una certa qual competenza tecnica; nasce così il tema dei saperi utili, anzi fondamentali, per il fare. Produrre qualità, creare ricchezza dal prodotto fisico è necessario, vitale; sono gli stessi anni in cui la cultura sposta il suo baricentro da luoghi totalmente fisici a spazi più virtuali, o vissuti come tali: radio prima, cinema e televisione poi prendono il sopravvento rispetto a tutto il resto, e la stessa televisione, in parallelo alla manifattura metalmeccanica, sembra fagocitare tutto, sembra dover far morire la lettura, l’ascolto, la partecipazione agli spettacoli dal vivo e alla condivisione in contenitori per tutti del sapere.

È la crisi stessa del Novecento fordista, paradossalmente, a rilanciare la cultura nello spazio urbano. Eclatante, e non a caso da me citato in apertura, la storia di Bilbao, la fine del suo ruolo di capitale dell’acciaio e del trasporto marittimo, la riconversione di ampi spazi del lungo mare e dell’estuario grazie al progetto di Frank Gehry sommato a quelli di Norman Foster per la metropolitana e a quello di Calatrava per l’aeroporto. Bilbao, insieme a Glasgow, Liverpool, Lione, Manchester e Torino, ma anche con Pittsburgh e con altre città nordamericane, mette in gioco un cambiamento potente nell’utilizzo degli spazi che furono per l’impresa fordista e che non sono più necessari per una serie di potenti concause: automazione, globalizzazione, nuova demografia.

Non è qui possibile entrare nel dettaglio delle strategie e degli impatti legati a ciascuno di questi tre elementi. È sicuro che tra le città italiane Torino – per la sua caratteristica di one company town – è quella che ha patito di più gli accorpamenti industriali prima e aziendali poi: il Lingotto, progettato a partire dal 1915 e inaugurato nel 1922, è stata la prima fabbrica capace di contenere tutte le funzioni produttive con un ciclo integrato di prodotto; chiusa nel 1982, è stata il primo grande spazio industriale ad essere totalmente ripensato come luogo di terziario avanzato, dopo un concorso di idee vinto come è noto da Renzo Piano. Oggi forse si dovrebbe fare altrettanto per Mirafiori, e certamente per le aree di Rivalta (To); questi enormi spazi sono città nelle città, ampiamente sotto utilizzate dal punto di visto produttivo e del tutto non utilizzabile da altri punti di vista.

Ma davvero ancora c’è margine per operazioni come quella di Bilbao o quella del Lingotto? E sono queste le vere frontiere della relazione tra spazio urbano e cultura? La cultura è sempre meno questione di spazi; tutto quello che ci scambiamo – o quasi! – nasce da una nuova forma di relazione, che non fa della cultura un elemento fisico ma sempre di più immateriale. Ciascuno di noi - come ben ci ha spiegato nel suo ultimo libro il filosofo italiano Maurizio Ferraris (Ferraris 2021) produce ogni giorno migliaia di ore di ‘girato’ video o di ‘registrato’ audio; tutti noi, più o meno consapevolmente, dedichiamo alla cura dell’immagine una grandissima attenzione; in particolare i giovanissimi grazie ai social media possono scambiarsi, far nascere o decretare la fine di mode e saperi che non hanno bisogno di spazi dedicati. Quello che conta è la relazione; rispetto alla quale, si potrebbe dire che manchi davvero alcuna progettualità. Ogni luogo e ogni momento ormai sono adatti per rappresentare, per fare musica o teatro o finanche scienza; gli strumenti che decidiamo di adoperare avranno sempre la loro parte ma quello che conta è la fiducia e la diretta conoscenza delle persone che immaginano il contenuto culturale; altrimenti, il medesimo perde valore ancora prima di essere offerto agli appassionati.

Cosa comporta questo a livello di progetto urbano? Questo cambiamento che non prevede più una linearità di azione tra chi offre e chi compra la merce della cultura; non c’è più bisogno di una raffigurazione frontale tra, ad esempio, l’attore e il suo pubblico. L’attore stesso è il pubblico. Potrei fare molti esempi di come in quasi tutte le categorie della produzione culturale, il valore stia nel processo, nella condivisione di obiettivi, nel duro lavoro quotidiano di parlare con l’Altro. Il termine che usiamo quali addetti ai lavori è quello di ‘co-creazione’. Si co-crea uno spettacolo, una musica, un progetto educativo. E quando e dove lo si fa? Lo si fa sempre, non è un atto festivo, anzi deve essere quotidiano! La pandemia ha poi spostato l’accento sul fatto che tutto si realizzi all’aperto, per fare in modo che non ci siano problemi di capienza o quasi, e soprattutto che il rischio di contagio sia minimo.

Ecco che lo spazio informale deve poter essere il luogo per fare tutto ciò; e che il progetto torna ad essere un atto politico, ovvero la capacità di portare nei luoghi persone che vogliano discutere con altre persone dei grandi temi della contemporaneità. La nuova automazione in corso, il progressivo ridursi di ruolo nella produzione e nella distribuzione, la smaterializzazione del denaro e dei modelli di sapere non fanno perdere ruolo alla cultura; non è che non essendoci più tempo per andare a teatro, il teatro muoia; anzi: il teatro per primo, ma vorrei dirlo specificando che dentro il teatro c’è la musica e la danza e la lettura e ovviamente la pittura, la scultura e la relativa competenza scenografica, torna ad essere il modo in cui discutere (come ai tempi dei grandi tragici greci) la relazione fra noi e la comunità e fra noi e la nostra identità. Questa necessità di domande, che il primo Novecento aveva trasformato in guerra e il secondo Novecento in spettacolo troppo mercificato, tornerà ad avere un posto importante nella nostra vita quotidiana – almeno, è auspicabile che avvenga, ed è compito di chi si occupa di offerta culturale e di progetto urbano di mettersi in gioco in tale direzione.

Troppo a lungo abbiamo cercato di dare una forma a un tempo; ora è il momento di fare il contrario; sarà questa la sfida della nuova biblioteca civica e il nuovo teatro previsti a Torino negli spazi che furono di Torino Esposizioni; il progetto a mio modesto parere dovrà partire dalla possibilità che gli spazi siano aperti a tutti sempre, facendo uso delle migliori innovazioni in ambito di domotica e delle migliori pratiche per quanto concerne la relazione tra i bibliotecari e i lettori.

Che relazione esisterà tra questa nuove grande opera pubblica della cultura e gli altri teatri e le altre biblioteche? Se tale spazio non sarà un luogo di rete, allora non sarà. Non potrà essere uno spazio dato ‘in concessione a’. Perché il secondo grande tratto distintivo del futuro prossimo, sarà quello di una società sempre aperta, che oppone la sua apertura alla chiusura. Sempre aperta come sempre on line come sempre attivi in ogni orario del giorno. Ecco bisognerà partire da queste funzioni per il nuovo progetto urbano di questi spazi. E immaginarlo come un ‘tempo’ disponibile per il sistema regionale e macroregionale con cui creare, disegnare, realizzare continue interazioni. La cultura sarà sempre più questo: capacità di far interagire in luoghi sempre aperti (ovvero in ‘tempi’) persone molto diverse tra loro capaci di scambiarsi idee e progetti. Tutto il contrario di quello che prevedono i grandi social network e le grandi imprese che immaginano attraverso l’uso dei big data e degli algoritmi che la nostra curiosità si possa trasformare in una azione ripetute e che quindi, se c’è piaciuto un libro o un film, noi continueremo prevalentemente a consumare prodotti dello stesso tipo. Una cultura che offre una dieta del sapere continuamente variata e che non ci porta, come scrisse il grande gesuita Neil Postmam, a “divertirci da morire” (Postmam 1985) ma a capire meglio chi siamo, cosa ci stiamo a fare sul pianeta e come possiamo costruire una società migliore attraverso gli strumenti dell’apprendimento e del comunicare.

Riferimenti

Ferraris M. (2021), Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.

Postmam N. (1985), Amusing ourselves to death. Public discourse in the age of show business, Penguin Books, London (ultima traduzione italiana: Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, Roma, 2021).

Data di pubblicazione: 17 ottobre 2021